Shivah, The
Il medium videoludico corre perennemente il rischio di essere banalizzato, costretto com’è a piegarsi al mercato mainstream. La sua massificazione conduce inevitabilmente a una carenza di coraggio da parte degli autori, più impegnati a cavalcare l’onda che a rischiare qualcosa di sperimentale.
Una larga fetta di chi scampa a questa standardizzazione creativa è composta dai gruppi indipendenti che tentano strade alternative o comunque più coraggiose. Gli spunti più interessanti, provenienti e testati precedentemente dal mercato di nicchia, vengono in seguito adottati anche dalle case più influenti.
“The Shivah” (2006), realizzato quasi interamente dal giovane Dave Gilbert (fondatore dell’etichetta Wadjet Eye), debuttò come titolo freeware: solo in un secondo momento, in virtù del successo riscontrato, ne fu pubblicata la versione commerciale che migliorava e ampliava il gioco originale. L’autore newyorkese si era già fatto le osse realizzando diverse avventure di stampo amatoriale (“Two of a Kind”, la serie di “Reality on the Norm” e “Bestowers of Eternity”, prova generale di “The Blackwell Legacy”); per l’edizione deluxe di “The Shivah”, l’autore si avvale invece di un aiuto esterno per la grafica e il sonoro, mentre il game design e la programmazione restano pienamente suo appannaggio.
“The Shivah” si presenta, prevedibilmente, in modo molto essenziale dal punto di vista visivo, con sprite dozzinali che evocano i primi anni ‘90 e si muovono in fondali spogli; un po’ meglio se la cava la colonna sonora, con musiche – campionate – adatte all’ambientazione. La versione deluxe può anche contare su un doppiaggio di buona qualità e un commento – stile dvd – dello stesso Gilbert (purtroppo non sottotitolato) che svela alcuni trivia sul progetto.
Ma ciò che realmente rende interessante l’avventura proviene interamente dai contenuti, fortemente validi e atipici. Si impersona un rabbino, Russell Stone, che predica in una sinagoga praticamente abbandonata dai fedeli: causa di questa condizione risiede in una profonda crisi di fede e in una radicata assenza di motivazione.
L’intreccio vero e proprio parte quando un detective bussa alla sua porta e gli comunica che un vecchio membro della sua sinagoga, Jack Lauder, è stato assassinato, e il rabbino è il primo a essere sospettato a causa di uno screzio avvenuto in passato: Stone aveva infatti espluso il signor Lauder dopo essere venuto a sapere della sua decisione di sposare una non-ebrea. Secondo le leggi ebraiche il rabbino aveva agito correttamente, ma Jack non aveva preso affatto bene la sua scelta di priorizzare i dogmi ebraici piuttosto che il buon senso. Da questo evento sarebbe partita una catena di eventi che, con ogni probabilità, avrebbe condotto Jack alla morte. Sentendosi quindi in qualche modo responsabile e volendo rimediare ai suoi errori, il rabbino Stone si improvvisa investigatore e tenta di scovare il colpevole diretto del misfatto.
La breve trama riserva un solo colpo di scena, mentre per il resto scorre via senza grosse sorprese. Il vero punto di forza consiste però in un tema – quello dell’etica – che genera riflessioni piuttosto inusuali in un videogioco: è giusto tener fede al proprio ruolo fino in fondo, oppure talvolta è meglio optare per scelte più umane, ma che in qualche modo rinneghino e sovvertano i principi alla base della funzione che si esercita nella società?
Il travaglio interno del protagonista è sottolineato da monologhi molto ben scritti e i numerosi dialoghi sono il fiore all’occhiello di una sceneggiatura assai ispirata e piacevolmente anomala, all’interno della quale si muoverà l’umanissimo protagonista, costretto a fare i conti con le conseguenze delle sue scelte.
È comunque evitato qualsiasi tema religioso: la tradizione ebraica è infatti presa solo come punto di partenza per affrontare questioni di tutt’altro tipo, lasciando da parte argomenti più scottanti.
Durante l’avventura, l’umorismo è coerentemente bandito, ma è possibile comunque riscontrare un paio di situazioni sopra le righe, nelle quali si percepisce un calo della verosimiglianza.
Le tematiche si ripercuotono anche sul gameplay, anch’esso fuori dai canoni.Molto spesso il giocatore dovrà decidere che tono assumere durante una conversazione (così come in “Blade Runner” e “The X-Files Game”), e oltre alle classiche opzioni accomodante/aggressivo è possibile anche scegliere la ‘risposta da rabbino’: ciò rappresenta un punto importante per il sottotesto dell’avventura, dal momento in cui una risposta di questo tipo può apparire come una presa di distanza dall’assumersi le proprie responsabilità.
Una rielaborazione del taccuino degli indizi di “Discworld Noir”, posto in alto allo schermo, è utilizzato per mettere insieme (letteralmente) le idee, riassociarle e proporle all’interlocutore nel tentativo di scoprire nuovi dettagli. Tale feature sarebbe poi comparsa, con qualche modifica, anche nella serie “Blackwell”.
Poco numerosi gli enigmi veri e propri. Non è consentita la combinazione di oggetti nello scenario o all’interno dell’inventario, ma spesso si è chiamati a scovare, attraverso ragionamenti comunque logici e coerenti, le giuste ‘parole chiave’ per accedere a delle funzioni di un computer.
La sensazione è che l’aspetto ludico non sia stato adattato alla trama, ma viceversa, priorizzando quindi il realismo dei puzzle e la coerenza interna degli stessi. Un giusto ed encomiabile obiettivo: purtroppo però, proprio come conseguenza di questa scelta, alcuni enigmi finiscono per ripetersi.
Piuttosto bizzarro il confronto finale, sorta di duello a insulti in stile “Monkey Island”: un’idea non molto indovinata che si riduce in un puzzle semplice e poco avvincente. Infine, i tre finali presenti (conseguenze di un paio di decisioni chiave) garantiscono una (limitata) rigiocabilità.
“The Shivah” è una bella avventura dal solidissimo contenuto narrativo e psicologico. Alcuni fattori avrebbero potuto essere ampliati, meglio sfruttati o magari più variegati, ma resta comunque un titolo da provare a ogni costo, nonché un’ottimo ‘test di maturità’ per il mezzo videoludico.
La citazione:
Un goy [non ebreo, ndGnupick] andò dal Rabbino Moishe e gli chiese: “Perché i rabbini rispondono a una domanda con un’altra domanda?”
Quindi il Rabbino Moishe replicò: “Perché no?”
Luglio 7, 2013 domenica at 8:27 pm