Last Express, The
Il servizio ferroviario dell’Orient Express (fondato dalla francese Compagnie Internationale des Wagons-Lits) cominciò nell’anno 1883, mirando a favorire il collegamento fra l’Europa l’Oriente e, nello specifico, tra la città di Parigi e l’antica Costantinopoli. Ovunque, il suo nome era sinonimo di lusso, e il suo successo portò ben presto ad estendere il servizio verso altri tragitti.
La risonanza fu tale che la linea ha provocato molte omonimie e ‘tentativi di imitazione’ anche da parte di compagnie private, e non si contano le opere di finzione che hanno utilizzato il treno come sfondo per vicende spesso oscure e misteriose. Fra gli esempi di maggior rilievo, si ricorda in primo luogo “Dalla Russia con Amore”, secondo film della saga di James Bond (in cui le eleganti carrozze fungono da teatro per la lunga fuga dell’agente segreto al servizio di Sua Maestà) e, soprattutto, uno dei romanzi gialli più famosi di Agatha Christie, che ha per protagonista l’investigatore belga Hercule Poirot (per noi videogiocatori esiste anche la trasposizione avventurosa “Agatha Christie: Assassinio sull’Orient Express”).
Ufficialmente, l’Orient Express è stato chiuso definitivamente nel 1977, ma esiste tutt’oggi un servizio che si fregia di questo nome, la cui corsa parte da Parigi e termina a Vienna.
Tralasciando le linee che nacquero successivamente, l’originale servizio dell’Orient Express fu interrotto in occasione dei due conflitti mondiali.
“The Last Express” racconta proprio la storia dell’ultimo viaggio dell’Orient Express durante l’anno 1914, precedentemente allo scoppio della Prima Guerra Mondiale. La scelta di ambientare la trama in questo preciso momento storico è presto detta: i fragilissimi equilibri mondiali sono espressi in prima linea, e noi stessi saremo spettatori dei complotti e delle motivazioni diplomatiche e politiche che portarono allo scoppio della guerra, che vedeva schierati da una parte la Triplice Intesa (Regno Unito, Francia, Russia e Italia) e dall’altra gli Imperi Centrali (Impero Austro-Ungarico e Impero Germanico). Fondamentale fu il ruolo della Serbia: l’assassinio dell’arciduca Ferdinando d’Austria, avvenuto nel giugno 1914 a Sarajevo e attribuito alla falange serba della ‘Mano Nera’, fu una sorta di pretesto perché l’Austria potesse scatenare il conflitto.
Le vicende di “The Last Express” prendono piede proprio nel 24 luglio del 1914 (ovvero quattro giorni prima della dichiarazione di guerra). Il medico americano Robert Cath (il personaggio che controlleremo) viene contattato dal suo vecchio amico Tyler Whitney e invitato a salire con lui sull’Orient Express (che esegue l’antico tratto Parigi – Costantinopoli): gli rivela di essere l’unica persona ad avere la sua fiducia, e pertanto la sola a cui confessare un misterioso segreto. Robert non si lascia ripetere l’offerta due volte: l’Orient Express potrebbe rappresentare un rifugio dalle autorità che gli danno la caccia in seguito all’omicidio di un poliziotto irlandese del quale è sospettato.
Sfuggendo alla polizia parigina, Robert decide di evitare la stazione e di salire sul treno direttamente in corsa. Neanche il tempo di ricomporsi, che il giovane medico scopre Tyler morto, giacente in una pozza di sangue nel suo scompartimento. Una prima analisi rivela delle ferite che indicano un assassinio brutale. Ma l’indagine dovrà aspettare, poiché il primo ad essere ritenuto colpevole sarebbe certamente Robert stesso (già indagato per i suoi dubbi precedenti): il compito prioritario del nostro alter ego sarà quindi liberarsi del corpo e della giacca macchiata dal sangue dell’amico. Solo allora, prendendo vesti ed identità di Tyler, Robert potrà amalgamarsi ai passeggeri del treno nel tentativo di scoprire la verità sull’accaduto.
Naturalmente, sorte vuole che la morte nasconda qualcosa di assai più grande, legato in qualche modo al gruppo di serbi presenti nella carrozza successiva, al trafficante d’armi tedesco, a una misteriosa violinista austriaca e, soprattutto, alla fiaba russa dell’‘Uccello di fuoco’.
La natura di “The Last Express”, insieme coraggiosa e sperimentale, è un caso più unico che raro non solo nella storia delle avventure grafiche, ma in quella videoludica in generale. I (pochi) difetti presenti non riescono a mettere in ombra l’esperienza generale, che si assesta su livelli altissimi e indimenticabili, e fanno di questa avventura un’autentica e irripetibile gemma, meritevole di essere annoverata fra i dieci titoli più grandiosi e importanti di tutti i tempi.
I sei milioni di dollari necessari alla sua realizzazione (un costo degno degli splendidi deliri videocinematografici di Chris Roberts e del suo “Wing Commander”) hanno dato vita a un’opera assolutamente personale e particolarissima in ogni suo punto (dalla grafica alla narrazione, dallo stile all’aspetto ludico), ognuno dei quali merita un capitolo a parte.
Demiurgo del progetto è Jordan Mechner, un nome molto noto nell’ambiente: suo fu, infatti, il primo storico “Prince of Persia” (anno 1989), l’adrenalinico capolavoro che segnò la storia e diede il via ai seguiti più o meno apprezzati (Mechner firmò la trilogia originale, e successivamente lavorò anche a “Prince of Persia: The Sands of Time”).
“The Last Express”, come i suoi precedenti lavori, esce (nell’anno 1997) sotto etichetta Broderbund ma sviluppato dalla Smoking Car Production, software house fondata da Mechner stesso, purtroppo andata in bancarotta proprio a causa del flop commerciale del titolo, nonostante il plebiscito di critiche positive.
Basta dare un rapido sguardo al video del making of contenuto all’interno del primo cd del gioco per rendersi vagamente conto dello sforzo produttivo dell’intero progetto. Istantanea scatta l’ammirazione nei riguardi di Mechner e soci, abbastanza temerari (o folli) da provare a realizzare un prodotto che, con ogni probabilità, ha la sola ‘colpa’ di essere troppo maturo in un campo ancora in piena adolescenza: “The Last Express” è, semplicemente, imparagonabile a qualsiasi altro titolo, anche edito successivamente. Infatti, mai più si è ripresa totalmente la strada (inaspettatamente spianata con successo) della Smoking Car, rendendo il gioco tutt’oggi senza eguali e praticamente unico per gran parte dei suoi aspetti.
Prima di cominciare a godere delle meraviglie preparate dal buon Jordan, si è subito spiazzati dall’atipico approccio grafico adottato: fin dai primi secondi, si scorge come all’interno dei fondali (statici) si muovano dei personaggi animati, per così dire, a ‘scatti’. La ragione risiede nella tecnica dei frame sfumati: in altre parole, i personaggi si muovono al ritmo di uno o due fotogrammi al secondo, in modo da ‘catturare’ le espressioni chiave e i momenti che lasciano intuire l’azione generale (come accade con i fumetti). Ma è inutile girarci attorno: che si sia trattato di una precisa esigenza stilistica o meno, l’impatto iniziale può decisamente apparire deludente. Ben presto però si impara ad apprezzare queste immagini bloccate, disposte ad hoc quasi a sembrare dei quadri d’autore (non a caso lo stile e il tratto morbido ricordano molto da vicino l’art nouveau del pittore francese Henri de Toulouse-Lautrec, e fra le sue fonti d’ispirazione l’autore cita anche il fumettista Enki Bilal, creatore della trilogia di “Nikopol”), che valorizzeranno sia l’angolo di ripresa che le performance degli attori.
Sì, gli attori: tutti i personaggi di “The Last Express” sono, di fatto, attori in carne ed ossa filmati con la tecnica del rotoscoping tanto cara a Mechner (quel processo nel quale il disegnatore/grafico ‘ricalca’ le scene partendo da una base filmica girata precedentemente), in modo non dissimile da quanto accaduto in tempi recenti con il film “A Scanner Darkly”.
Mechner stesso, oltre alla sceneggiatura (in coppia con la sua vecchia collaboratrice, Tomi Pierce), si è anche occupato della (ottima!) regia del titolo, mostrando anche insospettabili capacità di filmaker.
Se, durante gran parte del gioco, il rotoscoping si limita a potenziare le capacità recitative degli attori e la regia vera e propria, in alcune sequenze chiave (e durante i combattimenti, in cui ci sarà bisogno della giusta percezione del movimento) viene utilizzato per scopi classici, donando quindi alle animazioni un realismo perfetto: l’effetto (spesso a sorpresa) è formidabile, e sottolinea in modo eccellente un dato momento o una sequenza particolarmente significativa.
Le riprese, durate ben 22 giorni (per un totale di 40.000 fotogrammi), sono state interamente realizzate dietro uno sfondo blue screen, sostituito poi dai magnifici interni del treno, disegnati con cura certosina prendendo spunto dall’originale (per garantire la massima fedeltà della trasposizione digitale, gli autori sono entrati fisicamente all’interno dei vecchi resti di un vero Orient Express). L’immersione è totale anche grazie alla visuale in prima persona (con spostamento ‘a blocchi’, perfettamente coerente con l’approccio grafico intrapreso), anche se, come facilmente immaginabile, il volto del protagonista viene mostrato durante le numerosissime cutscene.
Se si vuol trovare dei difetti (si deve proprio?), si può osservare come i personaggi, quando troppo vicini allo schermo, tendano talvolta un po’ a ‘sgranare’; oppure sarebbe possibile criticare che non sempre si amalgamino perfettamente agli sfondi (dai colori più sfumati)… ma si tratta di inezie o poco più.
Il reparto audio, così come quello visivo, è un altro degli aspetti che rendono unico “The Last Express”.
Il treno è il calderone di varie razze e nazionalità per antonomasia, per cui è inevitabile e molto frequente ascoltare delle conversazioni nella lingua madre dei vari passeggeri. Il nostro Robert, essendo per nostra fortuna un uomo di cultura, riesce a comprendere e parlare perfettamente sia il francese che il tedesco, mentre mostra qualche difficoltà con il russo. Niente da fare, invece, per la lingua serba e indiana, che gli risultano del tutto estranee. Normalmente, Robert si esprime in americano/inglese, e quando parla o ascolta una lingua diversa – ma a lui conosciuta – compaiono dei provvidenziali sottotitoli che traducono l’esatto significato.
Questa caratteristica consente al gioco di possedere una lieve ma importante marcia in più. È infatti possibile udire e – soprattutto – origliare molte conversazioni, riuscendo a carpirne il significato di fronte agli ignari passeggeri. Tutto ciò verrebbe sminuito se non fosse sorretto da un’impalcatura sonora di tutto rispetto che si adatti alle diverse situazioni: quindi, per esempio, Robert è in grado di comprendere le lingue solo se si trova abbastanza vicino alla conversazione e, nel caso in cui è costretto a origliare dietro una porta o è troppo distante, le voci gli arrivano ovattate o lontane.
Gli effetti sonori hanno il compito di rendere ‘reale’ la nostra vita sull’Orient Express, fra il suono del treno sui binari, il tintinnio delle posate sui piatti e il ticchettio di un orologio. Tutto è praticamente perfetto, e ogni suono è studiato per rendere al meglio e ‘compensare’ le mancanze fra un lento fotogramma e l’altro.
La colonna sonora, infine, è un degno accompagnamento alle opprimenti vicende del gioco. Pur non potendo contare su un’orchestra vera e propria, le musiche sintetizzate realizzate dal compositore ceco Elia Cmiral (successivamente autore delle partiture di film come “Battaglia per la Terra”, “Ronin” e “Stigmate”) appaiono ugualmente molto buone e discretamente eseguite, e si avvalgono spesso di un ottimo violino solista. Molto incisivi, infine, i vari temi musicali portanti.
Lo score è interamente originale e scritto appositamente per il titolo: fa eccezione però l’incredibile duetto musicale piano/violino eseguito a metà dell’avventura (si tratta della “Suonata per Violino e Piano” di Cesar Franck): un vero e proprio concerto di eccellente fattura che andrà avanti per circa mezz’ora, e che saremo liberi – se vorremo – di ascoltare interamente.
Il doppiaggio merita uno spazio particolare. Nella versione originale, il parlato di base è l’inglese, mentre le lingue straniere (quelle sottolineate e non) vengono recitate con grande accuratezza e perizia: gli attori, infatti, rispettano la nazione d’origine dei loro personaggi, e così avremo dialetti e accenti perfettamente riprodotti senza il rischio di suonare falsi. In altre parole, in “The Last Express”, l’attore dietro a un personaggio tedesco è effettivamente di nazionalità germanica, un personaggio parigino avrà realmente la raffinata cadenza francese, e così via.
Per l’italiano si è deciso di doppiare nel nostro idioma tutte le scene recitate in inglese, mentre sono state lasciate intatte le sezioni recitate in lingua: nonostante i nostri attori cerchino di ‘imitare’ le voci dei loro corrispettivi stranieri, ascoltare lo stesso personaggio parlare fondamentalmente con due timbri diversi conferisce un risultato spesso bizzarro e leggermente alienante. Niente di gravissimo, comunque, ma sicuramente il ‘difetto’ spezza un po’ l’immersione generale.
D’altro canto, la prestazione dei nostri doppiatori risulta veramente ottima e molto al di sopra degli standard videoludici: uno su tutti Giorgio ‘Max Payne’ Melazzi, più misurato del solito, che regala un saggio ed erudito Robert Cath. Non sono da meno gli altri attori, e credo valga la pena di segnalare anche Raffaele Fallica (che riesce a generare una certa tenerezza nei confronti del mercante d’armi tedesco, August Schmidt) e Marco Balzarotti (perfetto nel ruolo del nervoso e impiccione inglese George Abbott).
Un piccolo appunto: purtroppo, durante alcune cutscene, i vari volumi fra musica, effetti sonori e voci (sopratutto quelle recitate in italiano) non sempre sono calibrati alla perfezione, e attenuano leggermente la spettacolarità dell’azione. Sono anche presenti lievi sbavature nella localizzazione, come qualche sottotitolo non tradotto e alcune frasi recitate con intonazione errata.
Questa lunga analisi sugli aspetti più immediati del titolo vorrebbe dare l’idea, seppur parziale, della cura profusa nei confronti di ogni dettaglio, anche il più marginale. Molti sono gli esempi di produzioni in cui, ad un approccio audiovisivo adeguato e originale, non corrisponde una solida e avvincente narrazione. Per fortuna, non è questo il caso: “The Last Express” spicca anche sotto questo profilo, se possibile ancor più rispetto a quelli precedentemente analizzati.
Prendendo come spunto evidente lo stile del maestro Hitchcock (l’autore cita “La Signora Scompare”, del 1939) e “I Trentanove Passi” del romanziere John Buchan, Mechner gestisce una vicenda dal fortissimo sapore europeo, intrecciando con eccezionale bravura le storie e gli intrighi personali e internazionali dei vari character che vivono all’interno delle carrozze.
Durante i tre/quattro giorni durante i quali è ambientata la vicenda si assiste non solo a una trama dai toni gialli, ma anche a complesse macchinazioni spionistiche e politiche, insieme a finissimi dilemmi di natura etica, morale e personale. Non è neanche tralasciata una trama di fondo che affronta (o meglio, sfiora) il misticismo, dando anche un lieve tocco fantasy all’avventura.
Le personalità sfaccettate costruite dagli autori si dimostrano tutt’altro che banali ma, piuttosto, umanissime e assai credibili, dotate di un forte background e un preciso passato. Molto abile nel non cadere nella trappola dello stereotipo, Jordan delinea personaggi pregevolissimi, ognuno dei quali con qualcosa da nascondere e una propria motivazione (non sempre condivisibile, ma perlomeno comprensibile). Quindi, se Robert Cath appare come un americano onesto, fedele verso il suo amico ma conscio di dover necessariamente scegliere in quale squadra giocare, la misteriosa e opportunista Anna Wolfe e il pratico mercante d’armi August Schmidt sembrano pensare più agli interessi della propria patria; il misterioso Kronos trasuda invece carisma e ambiguità, il solitario anarchico Alexei Dolnikov sprizza disillusione e, nel contempo, idealismo, mentre il gruppo della falange della ‘Mano Nera’ capeggiato da Milos risulta pronto a tutto pur di raggiungere i propri scopi. Non passano inosservati i tanti personaggi secondari, come Rebecca, ‘narratrice’ delle vicende del treno e custode di un sentimento nascosto verso la sua pettegola compagna di viaggio, o l’orgogliosa e snob Madame Boutarel, con il pestifero figlio e lo stupido marito al seguito. Perfino i controllori e il capotreno sono protagonisti di alcuni dialoghi che fanno risaltare al meglio le loro caratteristiche personali.
Se durante il primo giorno l’intreccio procede lentamente, avendo più che altro la funzione di far conoscere al giocatore/spettatore gli occupanti delle carrozze, nel secondo e – soprattutto – nel terzo giorno non si scherza affatto, con una sceneggiatura fittissima di eventi e realmente appassionante, ricca di capovolgimenti di fronte e dialoghi memorabili.
Nonostante il ritmo non faccia che crescere, c’è anche tempo per eccezionali scambi di battute, approfondimenti personali e momenti drammatici (come quelli, disperati e penosi, relativi alla follia della giovane Tatiana), che fanno risaltare l’esemplare abilità narrativa degli autori, sempre capaci di mantenere vivo l’interesse nel giocatore nonostante si affrontino spesso temi spinosi e si faccia uso di un gran numero di personaggi che si influenzano a vicenda. Questi nascono, crescono e ‘muoiono’ di fronte ai nostri occhi e a quelli del protagonista, la cui evoluzione non fa eccezione: il suo è inizialmente un ruolo ‘estraneo’ alle vicende europee, ma poi finisce per risultare coinvolto a più strati, anche personalmente. Quando il gioco comincia a farsi troppo duro appare ancor più determinato, non solo allo scopo di scoprire la verità sulla morte di Tyler, ma soprattutto nell’intento di far saltare i piani a tutti meno che a se stesso (in barba a qualunque ideale, missione o motivo personale degli occupanti del treno) nel vano tentativo di impedire una guerra (“Ho un biglietto per Costantinopoli e intendo usarlo”). La consapevolezza di essere di fatto impotente di fronte al grande disegno mondiale viene a galla in più di un’occasione, donando una dimensione in più al personaggio, che da semplice detective e poi eroe si rende infine conto di rappresentare solo un minuscolo tassello insignificante all’interno del gigantesco mosaico globale. La sua è una personalità ben delineata e precisa che va molto al di là della mera figura di avatar del giocatore: non a caso tutti i dialoghi saranno pilotati e, quindi, non interattivi.
Quello di Robert è, inoltre, un personaggio avvolto da una certa aura di mistero, soprattutto riguardo al suo retaggio (cosa rappresenta il disegno sul suo anello? Qual è esattamente la verità riguardo ciò che ha provocato le accuse contro di lui? Chi è la ragazza che l’aiuta a salire sull’Orient Express?) e ai suoi reali obiettivi una volta giunto al capolinea (perché Gerusalemme è la sua ultima meta? Qual è il ‘manoscritto’ a cui è tanto interessato?). Quesiti che, con ogni probabilità, vennero piazzati dagli autori in vista di un eventuale seguito e sono quindi destinati a restare senza risposta a causa del semi-flop commerciale.
Nel finale dell’avventura, fedelmente al sottotesto narrativo, aleggia una pesantissima sensazione di sconfitta e disillusione, evidenziata anche dall’incredibile sequenza dei titoli di coda, in cui si osservano freddamente i numerosissimi cambi di assetto dell’Europa (metafora solo apparentemente distaccata dei milioni di morti provocati dalle guerre del Novecento) attraverso una semplice cartina geografica che fa scorrere l’intero, sanguinoso, secolo.
Fra momenti prima spettacolari, poi introspettivi, emozionanti/desolanti, politici/mistici, divertenti/infausti, la trama culmina in sequenze da incorniciare e in momenti abbastanza fugaci – a prima vista quasi banali – da apprezzare appieno solo ad un secondo/terzo giro, magari rigiocando completamente l’avventura al fine di approfondire un aspetto rimasto precedentemente ai margini.
Risulta chiaro che “The Last Express” sia certamente un titolo inusuale sotto quasi tutti gli aspetti, ma l’impalcatura ludica vera e propria rappresenta il punto più distintivo in assoluto. Il gioco della Smoking Car, infatti, è ambientato completamente in un real time finissimo e molto curato (due ore corrispondono a circa una mezz’ora reale), che fa mangiare la polvere a qualsiasi altro esempio del genere (per esempio il Virtual Theatre di “Beneath a Steel Sky”?).
All’interno di un luogo chiuso non esageratamente ampio, ‘seguire la vita’ dei personaggi è una delle caratteristiche fondamentali del caso, e tutto questo è replicato (quasi) alla perfezione. Di fatto, il sistema in tempo reale non si limita a far muovere i character come degli automi (sveglia, passeggiata, ritorno allo scompartimento), ma dona loro una vita e un comportamento molto realistico: i personaggi si svegliano (ogni giorno ad orari diversi), vanno a fare colazione, intrattengono conversazioni, fumano un sigaro, leggono un giornale nel proprio scompartimento, e via dicendo. Naturalmente, conservano la ‘memoria’ delle proprie azioni, ed è così che se due si danno un appuntamento per cena li ritroveremo poi a conversare nel vagone ristorante durante l’orario stabilito salvo, naturalmente, inaspettati ‘bidoni’. Le personalità, insomma, si evolvono indipendentemente dalle nostre interazioni, e si è liberi anche solo di rivestire un ruolo di ‘osservatore’ delle loro vite e vicende.
Quelle dei personaggi non giocanti sono, naturalmente, azioni scriptate senza alcuna intelligenza artificiale adattiva, ma il risultato è comunque incredibile e senza precedenti: il nostro Orient Express è talmente pulsante di vita che spesso capita di perdersi qualche dialogo o avvenimento solo perché non si è presenti al posto e al momento giusto. Inutile dire che tale realismo fa parte del gioco, e spinge a rivivere l’avventura più volte per cercare di cambiare approccio e provare a seguire la storia da altre angolazioni. Il funzionamento del real-time è gestito in modo da far adattare il giocatore in maniera lenta ma piacevole, riuscendo a indurre a un tipo di ragionamento nell’affrontare gli enigmi piuttosto atipico nel mondo degli adventure, fino a ottenere un livello di fluidità davvero elevato.
Limitarsi a osservare, però, non fa progredire la trama principale. Buona parte del tempo viene infatti impiegata nel leggere appunti o a discutere con i vari personaggi, cercando di fare ordine nell’incredibile ragnatela di vicende principali e secondarie di cui è composta la complessissima sceneggiatura, sui rapporti (per niente casuali) tra i vari passeggeri e sulla moltitudine di intrighi e misteri che circondano l’avventura.
Naturalmente, gran parte degli enigmi sono sviluppati tenendo in considerazione l’aspetto tempo, per cui – per esempio – è opportuno setacciare la cabina di un personaggio solo quando è a cena o quando è occupato altrove, oppure può essere necessario far sparire prove compromettenti dalla cabina di Robert prima che il controllore venga a riordinare il letto.
Cosa accade quando si commette un errore? Che succede se è troppo tardi per compiere un’azione cruciale? Game over. Ma non c’è problema: una schermata con un grande orologio regala la possibilità di collocare indietro le lancette (letteralmente) e ricominciare prima che si effettui il passo fatale, affidandosi a una sorta di checkpoint automatico. Si è anche liberi di riavvolgere il tempo manualmente e fermare le lancette quando si vuole, magari per poter fare una scelta diversa o per rivedere/rigiocare una scena particolare (la facoltà di portare nuovamente avanti le lancette resta attiva per una trentina di secondi). In altre parole, si è di fronte a un meccanismo alternativo di save perfettamente funzionale.
L’interfaccia è, forse, l’unico aspetto veramente ‘classico’ dell’avventura: visuale in prima persona, cursore intelligente, inventario sul lato sinistro (non è possibile combinare fra loro gli oggetti dell’inventario). La presenza di enigmi veri e propri è ridotta al minimo: più che altro risulta fondamentale il giusto tempismo e la presenza fisica di Robert nei momenti chiave. Nonostante si sia costretti a restare sul treno per tutta la durata della storia, va precisato che la varietà di situazioni non manca affatto.
Generalmente, “The Last Express” non rappresenta una sfida particolarmente ardua. Si ‘muore’ molto spesso, certo, ma non è difficile individuare il problema ed evitare la dipartita. Il fattore tempo mantiene il ritmo elevatissimo per tutta la durata della storia, aiutato anche da sporadici combattimenti arcade (o meglio, duelli) di buona fattura, in cui sono determinanti il giusto tempismo e una certa dose di sangue freddo.
A causa del gran numero di dialoghi e di situazioni che si svolgono anche contemporaneamente ad altri, e dato l’immenso lavoro dietro ogni dettaglio, la longevità del gioco appare piuttosto bassa, ma il tasso di rigiocabilità resta molto elevato: “The Last Express” guadagna punti a ogni giro.
Mai come in questo caso può considerarsi ingiusto il fallimento commerciale di un’opera di ingegno. Nel 1997 il coraggio non fu premiato, ma “The Last Express” rappresenta un esempio artistico di indubbio valore creativo e tecnico e una tappa fondamentale per la maturità del mezzo videoludico.
Per molti, ma, forse, non ancora per tutti..
La citazione:
Anna: E’ come un gioco per te, stare da una parte o dall’altra: un giorno aiuti i bosniaci, domani gli inglesi. Vuoi sapere perché è morto Tyler? Lascia che te lo dica: per più di mille anni la gente si è uccisa sui Balcani, e non si fermerà certo per un americano. La nostra storia è una catena di sangue, ha origini profonde nel passato. Ci vincola, e non ti riguarda. Tyler è morto, non puoi farlo tornare indietro: perchè non te ne vai a casa, prima che ti succeda la stessa cosa?
Ottobre 21, 2012 domenica at 10:58 pm
Leggo soltanto ora questa bellissima analisi: volutamente, visto che ho completato per la prima volta The last express soltanto mezz’ora fa (dopo aver iniziato il gioco parecchi anni fa e averlo però subito dopo dovuto mollare per malfunzionamento del mio PC di allora). Avevo adocchiato questo tuo articolo, ma non volevo “spoilerarmi” nulla (essendo gli articoli di questo blog non “spoiler free”) così ho “rimandato” la lettura dello stesso di qualche settimana.
La mia sensazione in questo momento è di vera soddisfazione per aver vissuto uno dei capolavori della storia videoludica. Ora comprendo l’entusiasmo della critica (anche il tuo: sbaglio o è l’unico gioco, fra quelli analizzati in questo blog, a cui hai dato il massimo della valutazione?). Peccato non potersi dire altrettanto del pubblico: ma è evidente che il frettoloso videogiocatore medio di metà anni ’90, ma anche odierno, spesso non risulta recettivo di fronte a un’opera così fuori dagli schemi.
Del gioco di Mechner ho apprezzato molte cose: la sceneggiatura complessa e allo stesso tempo avvincente, la profondità di caratterizzazione dei personaggi, l’eleganza dello stile grafico e della regia, il lavoro enorme a livello sonoro (ottimo anche il doppiaggio italiano, sono d’accordo: menzionerei, oltre ai doppiatori da te citati, anche la bravissima Elda Olivieri nei panni di Anna Wolfe) ma soprattutto un aspetto nel quale latitano quasi sempre anche avventure grafiche blasonate, del passato e del del presente, e cioè il fatto che il protagonista non sia il “centro del mondo” catalizzatore di tutto e tutti ma solo un tassello di un complesso mosaico o se vogliamo un punto di vista (uno dei tanti possibili) per seguire la vicenda narrata. Questa ovviamente è solo una sensazione, perchè in realtà non è possibile impersonare altri protagonisti (come ad es. nei giochi di ruolo) nè interagire a livello di dialoghi, eppure la sensazione resta. Credo sia un merito della sceneggiatura.
Peccato davvero che un gioco del genere sia rimasto lettera morta (seppure riscoperto di recente, con le varie conversioni su altre piattaforme). Mechner sarà rimasto scottato dopo l’insuccesso commerciale, però spererei ancora che il buon Jordan, anzichè dedicarsi all’ennesimo Prince of Persia, ci possa un giorno regalare un seguito di The last express o, cosa ancora più auspicabile secondo me, un’avventura grafica totalmente diversa ma costruita con la medesima passione e cura di ogni dettaglio (anche utilizzando tecniche diverse: il rotoscope non credo sia necessario).
Il caso di The Last Express mi ricorda un po’ quello di Psychonauts: entrambi sono giochi di alta qualità sviluppati da pezzi grossi noti nel settore, entrambi hanno parzialmente floppato, ed entrambi sono stati ‘riscoperti’ col tempo (Psychonauts si trova un po’ ovunque ormai, The Last Express è reperibile anche su GOG e prossimamente su Zodiac).
E’ vero quello che dici sul protagonista che non è il centro del mondo, ed è molto interessante. Penso che la sensazione sia dovuta anche al curatissimo background storico e relativo ai personaggi singoli. Tutti (Robert incluso) si muovono con intelligenza ma il ‘big picture’, per così dire, è più grande di loro: inoltre non sono dotati solo di una propria caratterizzazione, ma hanno anche interessi, obiettivi, interagiscono fra loro e col protagonista in modo vario, si evolvono. Una lezione che molte avventure dovrebbero imparare, dato che generalmente ci si adegua su figure-macchiette per i NPC, sempre uguali a loro stessi e sempre bloccati nella medesima location.
Fra l’altro TLE guadagna molto nelle successive rigiocate, soprattutto perchè puoi esplorare il treno in momenti diversi e vedere cosa ti sei perso 🙂 . E… sì, credo che da quando ho inaugurato questa nuova versione del sito sia il primo gioco a ricevere il ‘punteggio massimo’ ( 😀 ), però nel vecchio Corner credo di aver elargito l’en plein anche a un paio di altri titoli (prima o poi reinserisco tutto – o quasi!).
La rigiocabilità di TLE in realtà l’ho sperimentata già alla prima “run”, perchè più di una volta ho portato indietro le lancette, anche senza essere rimasto bloccato, soltanto perchè avevo intuito di essermi perso qualcosa di interessante in altre zone del treno. 😉
Citandomi Psychonauts, con me sfondi una porta aperta, visto che adoro Tim Schafer (uno dei miei autori/game designers preferiti, da sempre) e quando giocai questo brillantissimo mix fra platform e avventura grafica, rimasi stupito e soprattutto dispiaciuto per il fatto che giochi apparentemente simili ma ben più banali lo surclassassero a livello di vendite. Fra l’altro quel flop, seppur solo parziale, fu probabilmente il motivo principale che bloccò sul nascere un eventuale seguito, ed è paradossale che in un mercato videoludico dominato da serie interminabili portate avanti spesso in modo artificioso per “mungere” quanto più possibile il seguito di fan (anche quando si tratta di giochi chiaramente “autoconclusivi”), rischi di rimanere “figlio unico” proprio un gioco come Psychonauts, dalle possibilità infinite o quasi (ogni livello corrisponde alla mente di un personaggio, e di personaggi interessanti e strambi uno come Schafer ne può inventare a vagonate!) e già di per sè con una quantità di idee tale da riempire molti giochi.
E’ vero che da qualche anno la “riscoperta” di titoli di alto livello del passato è agevolata dal passaparola (molto più “fluido” di una volta, grazie a internet e in particolare ai forum) oltre che, come giustamente dici, dai canali di distribuzione alternativi come gog e Zodiac. E questo potrebbe invogliare uno Schafer o un Mechner a rimettersi al lavoro con nuovi importanti progetti (che siano seguiti o no, poco importa, nel loro caso). Però è anche vero che per finanziare un gioco come TLE o Psychonauts occorre un budget piuttosto alto (non paragonabile ai titoli “tripla A” ma allo stesso tempo molto superiore a quello necessario per i piccoli giochi indie per cui basta un kickstarter) per cui il fatto che ad es.TLE oggi sia gettonatissimo su iphone e ipad (è stato uno dei giochi IOS più scaricati per diverse settimane) potrebbe non bastare, in quanto successo tardivo e comunque non tale da convincere un publisher a puntare nuovamente su progetti rischiosi e non rivolti alle masse. Non è un caso che Schafer è riuscito sì a trovare i soldi (tramite kickstarter) per la sua nuova avventura grafica vecchia scuola, ma non ancora per Psychonauts 2 (progetto che pure Schafer vorrebbe realizzare), per il quale ci vorrebbero molti più fondi e quindi anche il sostegno di un produttore “tradizionale”. In tal senso il mercato attuale è divenuto più “spietato” di una volta. Ho letto che Grim fandango costò una cifra corrispondente agli attuali 8 milioni di dollari (quindi una bella cifra), eppure una casa come la Lucas arts non ci pensò due volte a cacciare i soldi, nonostante fosse un progetto rischioso e comunque nuovo. Altri tempi…