Stranglehold
L’inflessibile e navigato ispettore Tequila, in barba agli ordini del Capitano Lee, affronta insieme alle sue ‘due amiche’ (una coppia di pistole) un caso che riguarda il rapimento di un poliziotto. Dopo aver scoperto di essere ormai in ritardo per salvare la vita del collega, Tequila insegue i responsabili fino ad arrivare al capo della Dragon Claw, lo spietato Wong. Il boss lo avverte che l’assassinio è stato in realtà perpetuato dalla Golden Kane, la Mafia Russa che tiene in ostaggio sua figlia (nonché ex moglie di Tequila) e sua nipote. Tequila, ingaggiato da Wong (che, oltre a essere un membro della Triade, è anche un nemico personale del nostro eroe), si fionda quindi a Chicago, dove ha sede la Golden Kane. Ma non tutte le cose sono come sembrano, e forse, alla fine di questa storia, il ‘body count’ sarà più alto del previsto…
“Stranglehold” (conosciuto anche come “John Woo presents Stranglehold”, 2007) è un sequel – curiosamente – ufficiale del leggendario “Hard Boiled”, film d’azione del 1992 con Chow Yun-Fat che ha traghettato John Woo dalla sua ‘piccola’ Hong Kong alla più facoltosa Hollywood. Aver scelto il medium videoludico per proseguire avventure nate su pellicola rappresenta una piccola tappa storica; inoltre “Stranglehold” vede anche l’ingresso del regista nel mondo dei videogiochi attraverso la sua società Tiger Hill Entertainment, che ha collaborato con un team della Midway – capeggiato da Brian Eddy – per confezionare il sequel in oggetto.
Innanzitutto c’è da chiarire un aspetto: “Stranglehold” è uno sparatutto. Duro&puro. Ogni virgola del gameplay è orientata a ottenere il massimo da questa, genuina, natura e per riuscirci al meglio i programmatori si sono ispirati pesantemente all’estetica del regista (e, in questo caso, anche produttore del gioco) John Woo.
Il primo pensiero, a guardare tanto il concept quanto la visuale (in terza persona e da dietro le spalle), va naturalmente al seminale “Max Payne”: in effetti nel titolo della Remedy si riscontravano tonnellate di influenze di matrice hongkonghiana debitrici proprio del cinema di Woo – quel gun fu costruito con personaggi supertosti, ralenty, doppie pistole e piombo a vagonate. In seguito a una lunga serie di titoli che si sono ispirati alle gesta di Max (pochi davvero validi), siamo quindi di fronte alla chiusura del cerchio. Nei piani di Lori Tilkin, co-fondatrice della Tiger Hill, braccio destro del regista e artefice del progetto, “Stranglehold” sarebbe stato l’originale, il vero gioco a là John Woo.
Ora, a scanso di equivoci, è bene precisare anche che il nome di John Woo sia stato ‘strillato’ più per volere pubblicitario che per effettivi coinvolgimenti. Il regista, decisamente poco avvezzo alle nuove tecnologie (pare che non abbia né un telefonino cellulare nè un indirizzo e-mail), è stato più volte citato come ‘coordinatore’ del progetto, ma è più probabile che il suo lavoro si sia limitato a qualche sessione di brainstorming col team Midway, a proporre e approvare idee. Come a confermarlo, Lori Tilkin ha affermato che il ruolo del regista è stato quello di ‘supervisore’ di vari aspetti del gioco, come sceneggiatura, casting e colonna sonora. Scordatevi quindi la ‘mano’ di Woo sia nella regia che nell’intreccio, sebbene sia presumibile che diversi spunti siano inevitabilmente passati.
Il cineasta cinese, a proposito di ciò, aveva dichiarato di essere molto contento di poter sfruttare le potenzialità del videogioco per far realizzare ogni scena d’azione che avesse in mente. In seguito, però, avrebbe ritrattato dicendo che realizzare un videogioco si era rivelato molto più complesso che girare un film, e che molte sue idee – anche quelle apparentemente semplici – erano state malauguratamente tagliate dal prodotto finale.
Ciò non toglie, però, che “Stranglehold” sprizzi Woo pitch da ogni poro, e che gli autori si siano scatenati proprio in virtù della licenza (se non altro, non possono essere accusati di plagio), adattando il gameplay allo stile del regista (attenzione: non viceversa).
Nel dettaglio, si assiste a un ‘Tequila contro tutti’, con centinaia di nemici che spuntano da ogni dove. Obiettivo del giocatore è eliminarli lungo un percorso costruito in modo lineare. Banale forse, ma anche sincero: “Stranglehold” è un vero sparatutto non contaminato, che concentra, rifinisce e perfeziona un concept molto semplice.
Attraverso l’utilizzo di pochi tasti, Tequila è in grado di compiere un altissimo numero di movimenti spettacolari (e inverosimili) per sbarazzarsi dei suoi rivali: oltre alle azioni più canoniche (come ripararsi dietro un muro e far fuoco), può tuffarsi in qualsiasi direzione, scivolare su un corrimano, appendersi a un lampadario, stendersi su un carrello in movimento e molto altro.
Durante ognuna di queste azioni entra in funzione il ‘Tequila Time’ (ma è anche attivabile a piacimento), simile al noto ‘Bullet Time’ di “Max Payne”, a cui ci si affida nella maggior parte delle sparatorie (per fortuna la barra si ricarica piuttosto in fretta).
Il tutto funziona molto bene, e il giocatore è invogliato a eseguire le mosse più estreme poiché, oltre a essere molto belle da vedere, rendono Tequila un bersaglio ben più difficile per gli avversari.
In aggiunta a ciò, c’è da tenere anche d’occhio un’altra barra, che si ricarica in modo direttamente proporzionale al numero di cadaveri che ci si lascia dietro le spalle: la ‘Tequila Bomb’. Essa dà accesso a quattro piccole ‘modalità speciali’, molto utili in diversi momenti: è possibile riparare parte dei danni alla salute del protagonista, ‘cecchinare’ da molto lontano (davvero appagante, anche grazie al particolare effetto grafico che culmina in uno scenografico slow-motion), trasformarsi per pochi secondi in mitragliatrici umane sparando a raffica senza subire danni e, soprattutto, far ruotare Tequila come una torretta impazzita, facendo fuoco senza tregua contro tutti i nemici in vista (la sequenza è enfatizzata da un effetto molto Woo style, con tanto di colombe svolazzanti come parte della coreografia).
A spezzare questo gameplay, si è pensato a un altro ‘trademark’ del regista, ovvero il ‘Mexican Standoff’: in certi momenti, Tequila si troverà in una situazione di stallo circondato dai nemici, e una particolare modalità gli permetterà di sparare a gran velocità contro ognuno di loro schivando nel contempo i proiettili.
Se ci si aggiungono l’estrema distruttibilità dei livelli (non solo un vezzo grafico: pur rendendo molto difficile ripararsi dietro qualsiasi parete o tavolo, permette anche di far letteralmente crollare lo scenario contro i nemici) e l’utilizzo del motore Havok per la fisica (ben riproposta), è possibile farsi un’idea di quanto “Stranglehold” ci tenga a ricreare con dovizia di dettagli e grande spettacolo le frenetiche sparatorie viste al cinema. Di fronte a tanta cura nel riproporre gli aspetti più coreografici, stona l’assenza della semplice funzione di ‘reload’ per le armi, altro marchio di fabbrica del cinema di Woo.
Al di là di ciò, sembrerebbe tutto – quasi – perfetto, ma purtroppo non è così. A volte, per quanto l’azione sia ben curata, si sente un po’ la mancanza di qualcosa che vada oltre la semplice eliminazione dei cattivoni. Chiariamoci, “Stranglehold” diverte anche grazie alla sua purezza, ma forse l’inserimento di qualche intermezzo più vario non avrebbe guastato.
Più in generale, si può dire che i primi due capitoli (di sei in tutto) siano piuttosto blandi, apparentemente piazzati per prendere dimestichezza con le funzioni del gioco (in particolar modo con le diverse ‘mosse’ di Tequila e con la distruttibilità dello scenario come ‘arma’ aggiuntiva). Per fortuna, dal terzo capitolo in poi le cose cominciano a farsi più interessanti, con vere e proprie ‘arene’ che in cui si riesce a spuntarla solo se si è capaci di sfruttare ogni abilità del protagonista: a quel punto, il giocatore non solo riuscirà a far compiere a Tequila ogni tipo di evoluzione, ma avrà anche accesso a tutte le utilissime ‘Tequila Bomb’, indispensabili per uscire vivi dagli scontri più duri.
Riguardo alla trama, si assiste a un intreccio molto classico ed essenziale. Si tratta comunque di un plot più elaborato rispetto a quello realizzato da Woo stesso per “Hard Boiled” (che però poteva vantare una mano più sicura alla sceneggiatura e tematiche un po’ più interessanti) ma, a parte qualche lieve sussulto e un paio di colpi di scena, non si può proprio dire che tocchi le giuste corde dell’emotività. Niente di grave, però: in un gioco del genere, fare le pulci alla sceneggiatura sarebbe decisamente pretenzioso.
Qualche parola anche sugli aspetti tecnici.
Innanzitutto, così come per il coinvolgimento di Woo, si è favoleggiato a lungo circa la partecipazione dell’attore Chow Yun-Fat nel ruolo (virtuale) del protagonista, Tequila. In particolare si parlava della presenza fisica dell’attore durante le lunghe sessioni di motion capture e di ‘recitazione’. In realtà, come ha candidamente dichiarato il project leader Brian Eddy, il grande Chow Yun-Fat si è dimostrato molto disponibile nei confronti del team (in trasferta dalla sua patria, Hong Kong), ma il suo apporto al progetto è stato limitato al fornire una scansione 3D del suo corpo e qualche fotografia che lo ritraeva in diverse espressioni (!). I grafici hanno quindi lavorato cercando di ricreare i suoi atteggiamenti nel migliore di modi (e si può dire che abbiano avuto successo), ma non si può davvero parlare di recitazione attiva da parte del buon Chow.
A ogni modo, per la versione originale del gioco l’attore ha anche provveduto a doppiare interamente il protagonista Tequila (in quella italiana la voce è del sempre bravo Claudio Moneta: purtroppo però, in questo caso, la sua voce appare troppo ‘distinta’ per un ruolo di questo tipo).
La grafica è piuttosto appariscente ma non ineccepibile: di certo non sorprendenti i modelli dei personaggi; inoltre, sono presenti alcuni – rari, ma fastidiosi – glitch (bad clipping relativo alle parti di scenario distruttibile o errori di compenetrazione dei poligoni) e le animazioni non sempre convincono. Eppure la resa generale è molto soddisfacente, grazie soprattutto alla spettacolarità intrinseca del gameplay, alla regia e a parecchi effetti speciali (come il già citato ed esaltante attacco rotante).
Eccellente comunque il sonoro, che può contare anche su un ottimo supporto musicale (più convincente rispetto allo score composto per “Hard Boiled”).
Per i maniaci della continuity è il caso a questo punto di aprire una parentesi. Come già detto, “Stranglehold” è considerato il seguito ufficiale del film “Hard Boiled”, e in effetti condivide con il vecchio film del ’92 sia l’approccio che l’ambientazione, oltre naturalmente al protagonista. Non è chiaro però come il titolo si collochi rispetto alla pellicola: sono scomparsi, infatti, sia il capitano Pang che la fidanzata del protagonista, Teresa, sostituiti dal capitano Lee e da una ex moglie spuntata dal passato (di Alan, il coprotagonista di “Hard Boiled” partito alla fine del film, non vi è comprensibilmente nessuna traccia). Quindi si potrebbe pensare che “Stranglehold” si piazzi cronologicamente qualche anno dopo: durante il gioco, però, si percepisce chiaramente un’ambientazione contemporanea (per esempio, i personaggi utilizzano telefonini di ultima generazione), ma Tequila non dimostra affatto 15 anni in più (infatti è stata eseguita una sorta di procedura di ringiovanimento nei riguardi dell’attore Yun-Fat, nel 2007 non più uno sbarbatello). Se a ciò si aggiunge che i legami con “Hard Boiled” risultano praticamente nulli (a parte il cameo del barista Woo, è presente solo una citazione: raccogliere gli uccelli di carta – visti nel film – incrementa la barra della ‘Tequila Bomb’), si può restare un po’ confusi circa la giusta collocazione temporale di “Stranglehold”.
Per chiudere, c’è da fare un confronto inevitabile con quel “Max Payne” della Remedy che tanto ‘prese in prestito’ dalla filmografia di Woo, e che nel 2001 la traspose così validamente sugli schermi videoludici. Entrambi i giochi rendono bene l’enfasi e l’impetuosità delle sparatorie ‘made in Hong Kong’ e, nonostante non brillino per la varietà di gameplay, riescono comunque a risultare divertenti in misura simile. Naturalmente, però, “Max Payne” risente di un gap tecnico ed evolutivo piuttosto rilevante rispetto al suo erede/capostipite, e non può certo contare sulle rifiniture (a dire il vero molto più grafiche che ludiche) apportate sei anni dopo dalla software house americana.
Sebbene però il titolo della Midway sembri battere “Max Payne” sotto molti punti di vista, è “Stranglehold” il gioco che, una volta terminato, si ripone nel cassetto (e forse per sempre). I motivi per cui “Max Payne” lascia il segno e dona un’esperienza globale più interessante non sono immediati: essi risiedono, probabilmente, in una struttura narrativa più efficace, in una maggiore empatia che si instaura con il protagonista (i monologhi e il dolore di Max gli conferiscono un’umanità che il durissimo e invincibile Tequila non possiede) e, infine, in un’atmosfera più riuscita (la New York priva di luce e speranza, con i suoi hotel malfamati e i reietti strafatti di Valchiria, fa certamente più effetto rispetto a una Hong Kong ben costruita ma meno inquietante e incisiva).
In altre parole, nel caso ci fosse bisogno di ulteriori conferme, è l’aspetto narrativo ed emozionale che ancora una volta fa la differenza, e che pone “Max Payne” al di sopra del comunque godereccio “Stranglehold”.
In ogni caso, chi si accontenta di impersonare una leggenda vivente del cinema mentre rovescia quintali di piombo su centinaia di esseri virtuali, può trovare in “Stranglehold” un’esperienza sicuramente appagante. Forse non molto varia né profonda, ma certamente piacevole.
La citazione:
Capitano Lee: (dopo aver osservato i segni della distruzione provocati dal passaggio di Tequila) Oddio, ci vorrà un anno per stilare quel maledetto verbale.
Nota: “Stranglehold” è stato il primo gioco della storia a essere venduto su due DVD doppio strato (l’installazione occupa circa 15 gigabyte!).
Agosto 19, 2013 lunedì at 3:21 am