Stacking
Il capofamiglia degli umili Blackmore è raggiante per aver ottenuto un buon posto di lavoro per conto di un potente industriale, noto come ‘il Barone’. Ma quando il padre non fa più ritorno, il perfido magnate viene a riscuotere dalla famiglia, costringendo ai lavori forzati tutti i figli meno il piccolo Charlie, considerato troppo giovane. Armato solo di un’imprevedibile e sottovalutata arguzia, l’ultimogenito dei Blackmore parte per una grande avventura nel tentativo di liberare i fratelli dalle grinfie del Barone.
In seguito ai grossi sforzi di produzione relativi a “Psychonauts” e “Brutal Legend”, la Double Fine sceglie di cambiare strategia e di affidarsi a una serie di brevi prodotti a basso budget ideati per il mercato – oramai affermato – del digital delivery, con l’implicita richiesta di dribblare le difficoltà economiche con slanci di creatività.
“Stacking” di Lee Petty (2011) è un esempio perfettamente riuscito in questo senso.
Fin dai primi minuti è possibile intuire come il concept ludico e la direzione artistica siano fusi in modo genialmente coeso. Tutti i personaggi sono infatti rappresentati come matrioske, le bambole di legno di origine russa che si ‘incastrano’ (stacking, appunto) l’una dentro l’altra: di conseguenza, l’universo di gioco è costruito interamente a loro misura, con scenari in cui ogni elemento (anche quello più imponente) è realizzato con piccoli oggetti che ne simulano la forma e l’utilizzo reale. L’intero game design si basa proprio sull’utilizzo delle bambole: Charlie è una minuscola matrioska e ha la possibilità di ‘incastrarsi’ in una bambola di taglia sempre più grande, assumendone non solo le fattezze ma anche le abilità peculiari (la facoltà è anche narrativamente motivata: il piccolo Blackmore riesce a persuadere con successo gli estranei).
Si tratta, fondamentalmente, del concept dell’imperfetto action “Messiah” (Shiny Entertainment, 2000), ma riproposto in salsa adventure: le caratteristiche delle bambole, infatti, giocano un ruolo cruciale nel risolvere i problemi che Charlie trova lungo la sua strada.
Basta poco per rendersi conto che si è di fronte a un concept che ripropone perfettamente gli elementi tipici dell’avventura grafica (le bambole in cui incastrarsi rappresentano i verbi e l’inventario del protagonista) e li mescola in un contesto unico. È possibile cioè provare l’azione caratteristica della bambola che controlliamo sugli altri personaggi, scatenando gli effetti più disparati. Girovagare attraverso gli ambienti sperimentando le varie abilità su chiunque capiti a tiro – soprattutto quelle più bizzarre – restituisce un piccolo piacere, tipicamente adventure, andato progressivamente perduto nel tempo con la semplificazione delle interfacce.
In generale, le sfide che si affrontano sono impostate per essere superate agevolmente, invitando – ma non obbligando – il giocatore a esplorare le locazioni con la dovuta calma.
“Stacking” prevede soluzioni diverse agli enigmi proposti e ne basta una sola per proseguire. Il tutto è tarato su una difficoltà piuttosto bassa e sostanzialmente basta fare attenzione allo scenario e parlare coi passanti per beccare l’indizio giusto. Completare ogni sezione risulta invece un po’ più complesso e ritirarsi nell’ ‘usa tutto con tutto’ è altamente scoraggiato (cambiare bambola può essere macchinoso, specie se essa gironzola lontano dal puzzle). Comprendere cosa fare prima di incastrarsi a colpo sicuro nella bambola giusta risulta quindi indispensabile, ma purtroppo non tutti gli enigmi seguono una logica ferrea e si rischia di ricorrere saltuariamente agli aiuti integrati che svelano progressivamente la soluzione precisa.
Oltre a enigmi smaccatamente adventure, il gioco prevede anche delle divagazioni che di avventuroso hanno ben poco: sulle prime, le digressioni sembrano anche simpatiche (come incastrarsi in tutte le bambole speciali presenti o usare l’abilità giusta sul personaggio giusto per generare alcuni ‘scherzetti’ ai danni degli altri), ma il pericolo ridondanza è molto forte e la sensazione che si sia allungato troppo il brodo resta.
In altre parole, “Stacking” si sforza di restare interessante lungo tutta la sua (breve) durata, ma è costretto a fare presto i conti col suo particolarissimo concept che obbliga a proporre enigmi con soluzioni inevitabilmente semplicistiche; quando vuol essere più complesso, invece, finisce per diventare un po’ contorto. È purtroppo lo scotto da pagare per un game design tutto costruito intorno alla (felicissima) idea di base.
Infine, per quanto riguarda il fronte narrativo, la sceneggiatura riesce a essere tenera ed eroica al punto giusto (trattando un tema difficile come il lavoro minorile in maniera leggera ma non stupida), però si limita solo a scalfire l’emotività del giocatore.
In ogni caso, ci si trova di fronte a un titolo curato sotto ogni aspetto. Il taglio grafico richiama alla perfezione l’ambientazione anni 20-30 e l’espediente dei personaggi-matrioska è un modo semplice ed efficace per risparmiare sulle animazioni (comunque presenti in misura ridotta e ottimamente realizzate). L’assenza delle voci viene invece giustificata con uno stile da cinema muto, con tanto di cutscene rappresentate all’interno di un teatrino improvvisato. Infine, sotto il profilo musicale, i brani classici (riorchestrati per l’occasione) contribuiscono in maniera eccellente a creare la giusta atmosfera.
L’intero ensemble, insomma, appare coerente e sorprendentemente fluido, conferendo al titolo un piglio artistico davvero indovinato.
“Stacking” è un’esplosione di creatività e un titolo per molti versi irripetibile che infine è costretto a fare i conti con la sua unicità. L’idea di partenza permette all’avventura della Double Fine di spiccare il volo ma allo stesso tempo le tarpa le ali: ciò non solo non intacca minimamente l’importanza di un titolo realizzato con intelligenza e professionalità, ma permette di osservare l’essenza degli adventure trasposta in modo atipico. Forse anche limitante, ma meritevole di attenzione.
La citazione:
Charlie: Ma i grandi non sanno fare niente da soli?
Ottobre 2, 2012 martedì at 6:51 pm
Sono contento che ti sia piaciuto!
In uno degli ultimi aggiornamenti di Lucasdelirium effettivamente Petty diceva che ogni idea di gameplay è stata sempre ricondotta all’incastro: poco budget per rendere il gioco più flessibile e sperimentare. Da qui il limite che noti tu, forse. Cmq Charlie è un mito, e ricordati:
“Ma quello è Charlie Blackmore! Il bambino più piccolo del mondo!”
Quanto adoro questa frase… 🙂
Eheh, effettivamente la tua frase era in ballottaggio per la citazione finale 😀 .
Charlie spacca, soprattutto nel finale con l’ESPLOSIONE alle spalle e il ralenty, LOL!