Laura Bow: The Colonel’s Bequest
New Orleans, 1925. La giovane studentessa Laura Bow viene invitata dall’amica Lillian a partecipare a una cena organizzata da suo zio, l’attempato ex colonnello Henry Dijon, all’interno della spettrale e isolata villa in cui vive. Durante il pasto il burbero padrone di casa comunica a tutti gli ospiti – parenti e amici – di aver disposto le sue ultime volontà: tutto il suo enorme patrimonio verrà diviso equamente fra i presenti al ricevimento – Laura esclusa.
Come da copione, fra gli invitati circolano veleni e invidie, e lo stesso ricco anfitrione non è visto di buon occhio. In un setting del genere non sorprende del tutto la scoperta di un omicidio: Laura, armata di taccuino e spirito d’osservazione, si prepara quindi a ficcanasare all’interno della ragnatela di intrighi, cercando – nel contempo – di sopravvivere alla notte.
Prima di parlare del titolo in oggetto, facciamo un passo indietro. “Mystery House” (On-Line Systems, 1980) di Ken e Roberta Williams, è considerata la prima avventura grafica della storia. Ambientata in un’antica villa vittoriana, la vicenda mostrava la struttura del whodunit tipico di Agatha Christie ispirandosi in particolare al romanzo “Dieci Piccoli Indiani” (nonché al gioco da tavolo “Cluedo”).
Con “The Colonel’s Bequest” (Sierra On-Line, 1989), gli autori (insieme al fido programmatore Chris Iden) tornano sulla scena del delitto ripescando e ampliando il concept originale e assicurando un’esperienza diversa dalle avventure dello stesso periodo: come recita anche una sorta di disclaimer all’interno del programma stesso (!), il gioco è piuttosto improntato sull’esplorazione e l’osservazione dello scenario, mettendo un po’ da parte il game-design tipico basato sulla manipolazione degli oggetti.
Pur utilizzando il nuovo linguaggio Sierra’s Creative Interpreter (abbreviato SCI, l’engine sostituì il vecchio AGI, Adventure Game Interpreter), la prima avventura di Laura Bow fa ancora uso dell’allora già anacronistico parser testuale per eseguire le azioni: sebbene tale interfaccia fosse già stata provvisoriamente abbandonata dalla Sierra in “Manhunter” (1988), la scelta di riutilizzarla rispecchia la necessità di affidarsi a un sistema più rodato e meno sperimentale. Se da una parte l’investigazione appare senz’altro più completa e soddisfacente, dall’altra la necessità di scrivere le azioni su schermo richiede a volte precisione assoluta e si presta a soluzioni un po’ troppo ostiche (come nel caso in cui non basterà ‘esaminare’ l’oggetto ma sarà richiesto di ‘guardarci dentro’).
La vera trovata di “The Colonel’s Bequest” risiede però nella possibilità di non risolvere gli enigmi e di proseguire limitandosi semplicemente all’osservazione degli eventi. Quando Laura assiste a qualche avvenimento o dialogo cruciale, infatti, il gioco sottolinea l’avvenuta attivazione di un trigger attraverso l’avanzamento della lancetta di un orologio (non avanza invece quando avviene la risoluzione di un puzzle). In questo modo lo scorrere del tempo resta legato a doppio filo con il gameplay non lineare, in quanto è possibile giungere alla fine della vicenda senza affrontare alcun enigma ma riducendosi a girovagare fuori e dentro la magione (la libertà d’azione è pressocchè totale fin dalle prima battute).
Al termine dell’avventura viene poi mostrato un taccuino (con relativo ‘punteggio’) in cui sono elencate le rivelazioni e le azioni importanti effettuate da Laura e soprattutto una serie di suggerimenti utili ad affrontare il gioco nella maniera più completa possibile. In altre parole, la rigiocabilità è parte integrante dell’esperienza: con i nuovi hint acquisiti, il giocatore è invogliato ad avviare a ricominciare più volte l’avventura nel tentativo di scoprire nuovi lati dell’intreccio o, semplicemente, per riuscire a raggiungere un punteggio più alto.
La trama va in effetti ricostruita attraverso le varie intuizioni, in particolare grazie a ciò che si osserva: una lunga serie di dettagli relativi alla vita dei vari personaggi o ai rapporti fra loro riescono a delineare un mosaico piuttosto complesso, in cui ognuno degli occupanti della villa nasconde segreti e antipatie. È perfino presente una sorta di subquest facoltativa incentrata sul ritrovamento di un ‘tesoro’ di famiglia: una diramazione assolutamente non legata alla storyline principale che può anche non saltar fuori affatto durante le indagini.
A questo punto è inevitabile chiedersi se la particolarissima struttura del gameplay si traduce infine in un’esperienza di gioco divertente e intrigante. La risposta non è semplicissima. È senz’altro vero che “The Colonel’s Bequest” riesce davvero a rendere palpabile il fascino dell’investigazione, con il giocatore impegnato a spiare i sospetti attraverso stanze segrete, a raccogliere impronte e a prendere appunti sui legami fra personaggi ed eventi, rigiocando l’avventura più volte fino a scoprire ogni minimo dettaglio. È però altrettanto corretto affermare che la prima indagine di Laura Bow è pesantemente ancorata al suo tempo, e applica un’interfaccia un po’ attempata (che sparava ormai le sue ultime cartucce) su un gameplay – invece – alternativo: un cocktail che richiede infinita pazienza e tanto tempo a disposizione.
Fra i lati meno riusciti va anche segnalato come molti dettagli sembrino piazzati appositamente per volere di ‘punteggio’ e non appaiano realmente necessari alla storia (per esempio, la raccolta delle impronte è praticamente fine a se stessa e non conduce a nessuna scoperta).
Infine, molto spesso è possibile far scattare involontariamente un trigger semplicemente entrando in una camera: in questo modo, si rischia di compromettere la risoluzione di enigmi che vanno affrontati necessariamente in un certo lasso temporale.
Il fascino dell’interpretare un detective ‘per caso’ resta comunque immutato nonostante le vicende – pesantemente ispirate ai classici del genere – non brillino certo di originalità. I vari personaggi rispecchiano infatti personalità tipiche nel classico stile del romanzo giallo e mostrano caratterizzazioni prevedibili e atteggiamenti stereotipati. Nessun tipo di approfondimento è invece riservato all’anonima protagonista, novella Nancy Drew, che osserva gli efferati accadimenti mantenendo un aplomb e un distacco un po’ inverosimile, sebbene funzionale allo stile di gioco.
Per quanto riguarda l’aspetto tecnico, la grafica EGA a 16 colori riesce a restituire efficacemente gli ambienti lugubri e oscuri della dimora, con un numero di animazioni piuttosto elevato e un frequento uso di zoomate e primi piani. Trascurabile, come prevedibile, l’adeguato sonoro (buoni i due brani dell’introduzione), mentre appare indovinato l’inserimento di alcune ‘shortcut’ via tastiera che ammortizzano in parte la pesante interfaccia testuale.
Pensare di farsi un’idea precisa di “The Colonel’s Bequest” senza giocarlo più volte è una speranza vana. L’avventura dei coniugi Williams è un’esperienza hardcore che non perdona ma che, se affrontata nel modo giusto, permette di rivelarsi come una delle migliori investigazioni di sempre.
La citazione:
John Bow: Tesoro, se le cose non sembrano normali, probabilmente NON LO SONO. Osserva la situazione da vicino, ma senza essere invasiva. Esplora i dintorni silenziosamente e attentamente. Fa’ domande senza sembrare sospetta. Occhio ai piccoli dettagli. Prendi molti appunti. E, soprattutto, fa’ attenzione.
Agosto 30, 2013 venerdì at 11:33 pm