Phoenix Wright: Ace Attorney – Justice for All
È trascorso un anno dagli intensi casi giudiziari narrati in “Phoenix Wright: Ace Attorney”: Phoenix è ormai uno stimato avvocato difensore che non ha mai perso una causa, sempre pronto a mettersi in gioco e a credere nel suo cliente.
Spaesato e colto da un’amnesia proprio alla vigilia di un nuovo processo, si appella al suo ‘istinto da avvocato’ e torna in sé proprio durante la causa, vincendola senza grossi problemi. Ma le vere sfide devono ancora cominciare…
“Phoenix Wright: Ace Attorney – Justice for All” rappresenta la seconda parte nella saga di ‘simulatore di avvocato’ della Capcom. Diretto nuovamente da Shu Takumi, il titolo è parte della trilogia di “Gyakuten Saiban” (in inglese “Turnabout Trial”, ‘Processo Ribaltato’) ideata per Game Boy Advance (2002) e trasposta su Nintendo DS nel 2006, non solo per il mercato giapponese, ma – per la prima volta – anche per quello estero (dove è giunto l’anno successivo).
Ancora una volta, quindi, il passaggio dal Game Boy Advance al DS è stato compiuto adattando l’interfaccia alla console dal doppio schermo, senza però aggiungere concretamente nuove funzioni di giocabilità che sfruttino le sue particolari caratteristiche.
Sarebbe semplice definire “Justice for All” un more of the same del primo “Ace Attorney”, ma non sarebbe del tutto corretto: più che altro, infatti, ci troviamo di fronte a un more or less of the same, ovvero una bizzarra combinazione di timidi elementi nuovi associati all’eliminazione di altri che rendono di fatto questo episodio meno fresco e appetibile del precedente.
La struttura e l’interfaccia non sono cambiate: si controlla Phoenix lungo quattro casi (di crescente lunghezza e difficoltà) durante i quali è richiesto dapprima condurre le indagini ‘sul campo’ e poi mettere a frutto le scoperte direttamente in aula di tribunale (anche in questo episodio fa eccezione il primo capitolo, composto solo dalla parte ‘giuridica’).
Di fronte a una sostanza praticamente identica, i tentativi di dare quel ‘more’ che giustifichi il sequel sono davvero pochi, anche se graditi.
Il primo riguarda una maggiore complessità generale dei casi: più frequenti i bivi e le sfide che conducono a errori, e più ampio il ventaglio di scelte a disposizione del nostro eroe (ora è possibile mostrare come ‘prova’ anche un profilo di un personaggio). Ciò si traduce in una giocabilità leggermente meno pilotata (almeno in apparenza) e, soprattutto, nella possibilità molto concreta di assistere a frequenti ‘game over’.
Direttamente legato alla precedente caratteristica, è stato anche rielaborato il sistema di ‘errori’, ora composto da una sorta di barra di energia che cala a ogni sbaglio (alcune inesattezze vengono ritenute più gravi di altre, e la barra diminuisce in maniera più sensibile), senza ‘ricaricarsi’ al termine di una seduta come invece accadeva nel primo gioco.
A parte queste lievi ma influenti modifiche interne (che non toccano la struttura principale del gioco ma mirano ad alzare parzialmente la difficoltà generale), è presente una sola vera aggiunta degna di questo nome: la possibilità di obbligare l’interlocutore a essere sincero, distruggendo i suoi muri difensivi, soprannominati ‘lucchetti psichici’.
La suddetta funzione, possibile solo durante la prima parte di un caso (quella ‘investigativa’), permette la scoperta di alcuni dettagli nascosti e di verità che favoriscono il procedere dell’indagine. Alcuni sospetti sono infatti riluttanti a esporsi, alzando delle barriere che vengono oltrepassate solo quando sono con le spalle al muro. Infranto il ‘lucchetto’, l’interlocutore si apre completamente a qualsiasi domanda o curiosità.
Si può quindi affermare che le nuove modifiche tendano non solo a rendere l’avventura più varia, ma anche a giustificare maggiormente la sezione investigativa (la quale, nel gioco precedente, appariva un po’ anonima).
Purtroppo, però, come detto in apertura, oltre al ‘more’ c’è anche il ‘less’.
Innanzitutto, è meglio scordarsi un quinto caso realizzato ‘ex novo’ che sfrutti le caratteristiche del DS: “Justice for All” è un porting totale dell’originale titolo per Game Boy Advance, ed è quindi composto dai quattro casi originali e niente di più. L’assenza si fa sentire.
Il secondo problema risiede invece nell’eccessiva ripetitività della formula che, per quanto buona, non può avvalersi più dell’effetto novità.
La pecca non deve essere sfuggita ai programmatori, che hanno conservato tutti gli aspetti di successo del capostipite, optando però per un tono più umoristico. Purtroppo, anche questa scelta si rivela parzialmente inadatta: infatti, diverse volte le atmosfere appaiono fin troppo sopra le righe, così come gran parte dei nuovi personaggi, che vivono solo in funzione delle loro caratteristiche da macchiette piuttosto che venire adeguatamente inseriti nel contesto del caso. Se, quindi, può far sorridere il sempre divertente detective Gumshoe, imbranato e goffo, è invece fin troppo esagerato il nuovo personaggio di Franziska Von Karma (figlia in cerca di vendetta del temibile procuratore Von Karma), che arriva a frustare (letteralmente!) chiunque le capiti a tiro, giudice della corte compreso. Quest’ultimo si è poi trasformato in un personaggio buffo e impacciato, ma poco verosimile.
La virata verso l’umorismo più spinto (comunque presente in gran dosi anche nel gioco precedente) funziona una volta raggiunto il livello ‘tormentone’ (sì, anche le frustate di Franziska finiscono per divertire), ma per gran parte resta eccessivo, soprattutto se si considera che i casi trattati raccontano storie di efferati delitti.
In quanto a new entry che riescono ad evitare la trappola della caratterizzazione monodimensionale (diversamente dal ben poco simpatico pagliaccio Moe e dalla svampita studentessa Ini), va segnalata la tenera Pearl, cugina di Maya, abituata a vivere nel villaggio di famiglia e quindi del tutto estranea ai meccanismi del mondo reale.
Torna anche qualche vecchio personaggio: purtroppo, escludendo il già citato detective Gumshoe e il sempre carismatico Edgeworth, le loro caratterizzazioni sono spinte all’estremo, risultando spesso non solo eccessivamente sopra le righe, ma addirittura fastidiose. È un esempio lampante l’insopportabile signora Oldbag (veramente irritante), la fotografa Lotta Hart (che, piuttosto che dare una mano, preferirà mettere i bastoni fra le ruote) e l’anonimo Will Powers (la cui presenza è quasi ininfluente).
In definitiva, a questo giro il bilanciamento fra i toni scherzosi e quelli più seriosi, punto di forza del primo episodio, risulta barcollante.
Buona invece la caratterizzazione del tormentato personaggio di Adrian Andrews, la cui aria autoritaria nasconde una grave insicurezza dovuta all’assenza di una figura ‘mentore’.
Sul fronte narrativo, ci si trova nuovamente di fronte a delle vicende ben strutturate ricche di colpi di scena: il problema è che restano un po’ fini a loro stesse, con un utilizzo della continuity piuttosto trascurabile e un ‘brodo’ a volte troppo allungato da dettagli e dialoghi superflui o esageratamente prolissi. Fa eccezione il (titanico) quarto ed ultimo caso, caratterizzato da una partenza difficile e una ripresa miracolosa nella seconda parte, in cui finalmente si assiste a una certa evoluzione dei personaggi (grazie – manco a dirlo – a un intelligente uso della continuità narrativa), con i nostri eroi piazzati in una situazione inedita e coinvolgente. È proprio attraverso l’ultimo caso che “Justice for All” introduce – tardivamente – quella che forse è l’unica tematica realmente interessante, costituita da un dilemma morale che riguarda l’avvocato dai capelli a porcospino: sceglierà di fare fino in fondo il suo lavoro di ‘avvocato difensore’, o preferirà un approccio più etico, ma che rischia di mettere in discussione non solo la sua carriera, ma il suo ruolo nel mondo?
Sugli altri ‘fronzoli’ non c’è molto da dire: la grafica è rimasta praticamente invariata (pochissime le nuove animazioni), così come il sonoro (fa eccezione qualche nuova musica che prende il posto – purtroppo non benissimo – di qualche vecchio brano). Discorso analogo per l’interfaccia. Davvero ottimo l’adattamento italiano, scevro di quelle piccole imprecisioni che caratterizzavano la traduzione del primo gioco.
Alla luce di tutto questo, la sensazione generale è che i programmatori della Capcom si siano forse adagiati troppo sugli allori, proponendo quello che somiglia più a un data disk che a un seguito vero e proprio. La scarsa convinzione e l’assenza di coraggio nell’introdurre nuove modalità o almeno una trama generale più avvincente, rischia di compiacere l’irriducibile fan ma di deludere gran parte dell’utenza media o progressista. Ciononostante, “Justice for All” svolge comunque il suo ruolo di ‘passatempo’, incollando allo schermo fino alla risoluzione del caso.
La citazione:
Edgeworth: Non importa quanti colpi bassi e trucchetti vengano utilizzati. Alla fine, la verità troverà sempre un modo per rivelarsi agli occhi di tutti. L’unica cosa che possiamo fare è lottare con ciò che sappiamo e ciò che possediamo. Risolvendo le contraddizioni del caso, una dopo l’altra. Non è facile, certo… è come scalare una montagna a mani nude… ma una volta arrivati in cima, la verità ripagherà ampiamente i nostri sforzi.
Pearl: La verità?
Edgeworth: Sì. E’ il fine ultimo degli avvocati e dei procuratori. Il loro motivo di vita. Ma sono sicuro che questo lo sai già, vero Wright? È per questo che non riuscivi a perdonare un uomo che aveva deciso di nascondersi, vero? Un uomo che aveva solo la ‘vittoria’ come obiettivo, che era fuggito senza dire nulla.
Settembre 25, 2013 mercoledì at 1:55 am