Phoenix Wright: Ace Attorney
Phoenix ‘Nick’ Wright è un giovane avvocato difensore – fresco di laurea – che vive in una non precisata cittadina americana del 2016. Nonostante il suo look non sia esattamente convenzionale – i capelli sparati all’indietro sono forse più adatti a un giocatore della New Team – e la sua esperienza sia pari a zero, il ragazzo dimostra da subito ottime potenzialità, come percepisce il suo mentore, l’avvocato Mia Fey. Ben presto Phoenix dovrà davvero tirar fuori le unghie per difendere il suo cliente, trovandosi contro non solo un gran numero di prove schiaccianti, ma anche il rodato procuratore Miles ‘Edgey’ Edgeworth, ben poco propenso a scrupoli morali. Per fortuna, l’eroe potrà contare sull’aiuto fidato della sorellina di Mia, Maya Fey, una ragazzina ottimista che nasconde dei misteriosi poteri da medium.
“Phoenix Wright: Ace Attorney” (nell’originale giapponese “Gyakuten Saiban Yomigaeru Gyakuten”) è la seconda avventura grafica ‘pura’ ad approdare sulla console portatile Nintendo DS (la prima, “Another Code: Two Memories”, era stata edita poco prima), benché fosse stata effettivamente realizzata qualche anno addietro solo per Game Boy Advance. La versione europea/americana del 2006 è quindi una sorta di trasposizione/remake dell’originale datato 2001 (pubblicato unicamente in Giappone, in cui è apparsa anche una conversione per PC): il titolo, adattato ai controlli del DS, replica pedissequamente ogni aspetto del prototipo, aggiungendo però un quinto caso (ai quattro originariamente realizzati) che sfrutta maggiormente l’interfaccia della console con la stilo.
Realizzato dalla storica Capcom e diretto da Shu Takumi (principale artefice dei due action “Dino Crisis” e collaboratore in “Resident Evil 2”), “Phoenix Wright”, può essere definito come un ‘simulatore d’avvocato’. I casi/capitoli previsti vanno infatti affrontati in due sezioni ben distinte: la prima comprende il classico lavoro da detective, con lunghi dialoghi con i sospetti, ricerca di prove e deduzioni assortite; la seconda parte, invece, è ambientata direttamente in un’aula di tribunale, con il nostro Phoenix impegnato durante la seduta a difendere il suo cliente e a smontare le accuse del procuratore (fa eccezione il primo caso ‘tutorial’, composto solo dalla seconda parte).
Questo scenario non appare del tutto inedito nella storia delle avventure: impossibile non citare la serie di “C.S.I.” che richiedeva un minuzioso lavoro di ricerca delle prove e, soprattutto, di “Law & Order”, caratterizzata da lunghe sequenze in tribunale.
In realta, “Phoenix Wright”, a parte l’idea di sfondo, non ha granchè da spartire con i titoli sopra menzionati. Sua caratteristica principale è, infatti, il tono generalmente leggero e umoristico, retaggio dello stile cartoon/nipponico più classico (a cominciare dal character design tipicamente stile anime) e adatto a tutte le età.
Inoltre, il gioco adotta un approccio particolarmente originale alla tipica narrazione investigativa riscontrata in molti titoli: l’obiettivo primario, infatti, non è quello di beccare il colpevole del reato, bensì di scagionare il cliente di Phoenix (dando per scontata la sua innocenza). Naturalmente, come inevitabile ‘side effect’, le indagini condurranno comunque al vero criminale.
Graficamente, l’avventura non si presenta particolarmente inventiva, ma ripropone con successo il tipico stile giapponese da cartone animato ‘mainstream’. Le animazioni (poche ma buone) si dimostrano ottime nel sottolineare i vari toni assunti dai personaggi e i momenti più umoristici. Il resto del lavoro è affidato a un discreto lavoro di regia (piccole vibrazioni, flash, e così via). Va sottolineato, comunque, che lo stile grafico adottato rende il titolo visivamente immortale.
L’audio è molto essenziale, ma viene degnamente utilizzato per spalleggiare la regia: i particolari effetti sonori riescono a rendere al meglio le diverse situazioni, mettendo in risalto un certo dialogo, una scenetta o semplicemente una gag. Le musiche digitalizzate in stile midi (composte da Akemi Kimura e Masakazu Sugimori) non sono male e restano sicuramente in testa, pur suonando un tantino ripetitive.
Per ovvi motivi il parlato è assente, a eccezione degli ‘strilli’ (come il famoso ‘Obiezione!’) che riescono – con successo – a variare il ritmo.
Considerata la mole dei testi, la traduzione in italiano è complessivamente buona, anche se è presente qualche piccola sbavatura.
Le funzioni del touch screen del DS sono ottimamente convertite, a parte una piccola aggiunta ‘vocale’ (si può urlare “Obiezione!” al microfono, in alternativa alla semplice pressione di un pulsante) , ed è possibile controllare il gioco usando unicamente la stilo.
Questo, almeno, vale per i primi quattro casi. Il quinto invece, del tutto inedito, sfrutta appieno le potenzialità delle console, proponendo enigmi alternativi che valorizzano l’utilizzo dello schermo ‘sensibile’ e del microfono (analisi delle impronte digitali – con tanto di ‘soffio’ richiesto per togliere via la polvere in eccesso, rotazione manuale in 3D degli oggetti, e altro): una vera delizia.
Un piccolo appunto: a essere onesti, l’interfaccia grafica utilizzata durante le sezioni di pura investigazione è un po’ macchinosa, ma non è il caso di lamentarsi troppo.
Il game over può scattare unicamente durante la parte dedicata al processo vero e proprio, in cui sono concessi al massimo quattro errori: al quinto, il giudice pronuncerà il verdetto di colpevolezza. Un limite piazzato per regalare quel pizzico di adrenalina in più, ma sostanzialmente inutile in virtù del salvataggio libero.
In ogni caso, “Phoenix Wright” è molto lineare nel suo svolgimento ed è praticamente impossibile restare realmente bloccati. Se accade, basta provare ogni opzione a disposizione (di solito in numero molto ridotto) per uscire fuori dall’inghippo. Da questa scarsa libertà di gioco deriva la definizione di ‘novella visuale’ che può venire associata a “Phoenix Wright”.
Ciò non vuol dire che l’avventura tenda ad essere fiacca e poco intrigante. Tutt’altro: i casi costruiti dagli autori sono narrativamente appassionanti nonché ottimamente costruiti e la struttura ludica, come già detto, è molto semplice, immediata e mai frustrante. A ciò si aggiungono l’intreccio, leggero ma coinvolgente, una gamma di personaggi molto ben caratterizzati, casi intricatissimi e ricchi di colpi di scena e una buona dose di humor complessivamente riuscito.
Naturalmente l’aspetto giudiziario appare assai semplificato, con tanto di situazioni a dir poco improbabili e inverosimili (atte a movimentare l’azione o a far sorridere), ma sempre coerenti all’universo narrativo creato dagli autori.
L’incredibile quantità di dialoghi presenti e l’elevatissima longevità sono conseguenze naturali di casi veramente complessi (il quinto, in particolare, non scherza davvero), eppure ben ricapitolati di tanto in tanto a uso e consumo di chi vuol gustare l’avventura a piccole dosi, senza impegnare eccessivamente il cervello.
Inoltre, è davvero impossibile non affezionarsi alla gamma di personaggi presenti, tutti dotati di una forte personalità e agevolati dal grande spazio a loro dedicato. Phoenix, con quei suoi capelli sparati all’indietro, è delineato come un avvocato idealista – ma un po’ imbranato – pronto a puntare il dito contro le bugie; la giovane Maya sprizza energia da tutti i pori e il suo sguardo sottilmente malizioso stabilisce maggiore complicità con il protagonista; Miles Edgeworth è un procuratore navigato e tormentato, ma con un suo codice da rispettare; l’incapace e goffo detective Gumshoe, bistrattato dai suoi stessi colleghi, ispira tenerezza. Infine, i personaggi/macchiette sono davvero numerosi, e tutti ottimamente studiati.
La tante ore di gioco rischiamo però di risultare eccessive per chi preferisce sessioni di gioco particolarmente intense: in questi casi, possono venire alla luce le inevitabili carenze, come i dialoghi eccessivamente prolissi, la messa in scena un po’ limitata dalla grafica, una certa scarsezza di varietà e un’interattività comunque piuttosto modesta (spesso intervallata da scenette riempitivo, gag ripetitive o troppi ‘punti della situazione’).
“Phoenix Wright: Ace Attorney” è un titolo di raro magnetismo: i suoi pregi (molti) e i suoi difetti (pochi) risiedono soprattutto nella sua – riuscita e ben sfruttata – struttura da ‘gioco portatile’. Il prodotto della Capcom può rappresentare un modo complementare o, piuttosto, alternativo di concepire un’avventura grafica. Un romanzo animato interattivo dentro cui immergersi, in solitudine, grazie al potere della narrazione e della scrittura. Magari nel silenzio di una camera notturna, sotto le coperte. Solo che, in questo caso, possiamo spegnere la luce sul comò: la console è dotata di retroilluminazione.
La citazione:
Phoenix: Nessuno può cambiare il proprio passato. L’unica cosa che possiamo fare è cercare di porre rimedio ai nostri errori. Perché dobbiamo rimediare ai nostri errori? Perché così facendo potremo ritrovare la nostra strada. E, una volta trovata, potremo dimenticare gli errori del passato e incamminarci verso un futuro migliore.
Nota: Un piccolo trivia sul titolo originale: “Gyakuten Saiban Yomigaeru Gyakuten” rappresenta, con ogni probabilità, un gioco di parole giapponese intraducibile. In inglese può essere (faticosamente) adattato come ‘Turnabout Trial (o ‘Comeback Courtroom’): Revived Turnabout’, come a rimarcare l’abilità del prode Phoenix di ribaltare e ‘riesumare’ processi apparentemente a senso unico.
Nel titolo americano si è deciso di far comparire il nome del protagonista (seguito da “Ace Attorney”, ‘Grande Avvocato’): il termine ‘Turnabout’ appare comunque nel nome di ogni ‘caso’ (tranne, curiosamente, nel quinto), per strizzare l’occhio al titolo originale giapponese.
Giugno 5, 2013 mercoledì at 3:40 am