Prisoner of Ice [Call of Cthulhu]

Antartide, fine degli anni ‘30: un sottomarino britannico, il Victoria, ha recuperato un prigioniero di guerra di nome Bjorn Hamsun, sfuggito in qualche modo da una base nazista. Insieme all’uomo viene anche ritrovata una strana cassa top secret appartenuta ai nazisti. Un giovane ufficiale americano assoldato dai servizi segreti, il tenente Ryan, è il secondo in comando del Victoria: in seguito a un incendio provocato da strane creature mostruose, è però costretto a prendere il comando del sottomarino e a tentare di trovare una soluzione agli strani eventi che cominciano a verificarsi. Da lì a poco scoprirà che le casse contenevano degli organismi – in seguito soprannominati ‘Prisoner’ – mantenuti sotto il ghiaccio per secoli, legati misteriosamente ai ‘Grandi Antichi’ e, in particolare, al ritorno sulla Terra di Cthulhu (ancora lui!).

Call of Cthulhu: Prisoner of Ice” (in principio solo “Prisoner of Ice”, anno 1995) rappresenta la chiusura dell’ideale trilogia lovecraftiana prodotta dalla Infogrames, cominciata con l’action-adventure “Alone in the Dark” e proseguita con l’avventura “Call of Cthulhu: Shadow of the Comet”.
Il team della casa francese (nel quale si può scorgere fra gli autori Denis Dufour, già programmatore dell’avventura precedente) confeziona questa volta un gioco più accessibile e meno hardcore: gli enigmi a tempo e le frequenti possibilità di veder morire il protagonista sono ancora presenti ma, generalmente, le varie agevolazioni del gameplay evitano le frustrazioni del suo predecessore.

Già dopo i primi minuti, la situazione non è esattamente incoraggiante: un uomo è morto, le fiamme divampano e un Prisoner tenta di sfondare il portone. Auguri.

Osservando i primi minuti di gioco, si potrebbe pensare che “Prisoner of Ice” costituisca un episodio totalmente slegato dalle altre due avventure, il cui unico fil rouge è rappresentato dalla mitologia di Lovecraft. Niente di più sbagliato: intorno alla metà dell’avventura, si apprende come la trama rappresenti il proseguimento dell’agghiacciante “Shadow of the Comet”, riprendendo non solo alcuni vecchi villain (l’indiano Narackamous incluso), ma anche il protagonista della precedente avventura, John Parker, qui in un ruolo imprevedibilmente cruciale. A dire il vero, il ‘link’ fra i due giochi è inaspettato quanto elegante: la continuità non è nient’affatto forzata e il background fornisce un giustificato appiglio per costruire una trama dai toni molto diversi rispetto a “Shadow of the Comet”. Laddove il titolo del ’93 si svolgeva quasi interamente ad Illsmouth, una cittadina ambigua e gelida, la trama di “Prisoner of Ice” possiede infatti un respiro più ampio, spaziando dall’Antartide a Buenos Aires, fino a una piccola visita a sorpresa proprio ad Illsmouth, sul finale. Del tutto differente anche l’atmosfera: mentre l’avventura di Parker pulsava di angoscia e tensione, ora la storia appare più fantascientifica e dinamica, ma decisamente meno spaventosa.
Quella di cambiare registro rappresenta una scelta molto indovinata che regala una personalità propria al gioco, evitando la trappola della mera riproposizione di un contesto riuscito.

In un paio di occasioni vengono propoisti piccoli enigmi a tutto schermo. Niente di insormontabile, comunque.

Come a confermare la sua indipendenza, “Prisoner of Ice” rivendica la sua natura di titolo più cinematografico e vivace grazie a un brusco abbassamento della difficoltà e un numero di locazioni assai più ridotto. Le suddette caratteristiche non possono essere considerate un bene oggettivo, ma è anche vero che dopo l’opprimente “Shadow of the Comet” fa piacere prendere aria: “Prisoner of Ice” è, in fondo, figlio di un periodo in cui le avventure grafiche tendevano a sfoggiare i progressi tecnici (da qui la nascita dei ‘film interattivi’) riuscendo a essere fruibili da una fetta di pubblico il più ampia possibile.
D’altro canto, i personaggi purtroppo non possiedono il fascino di quelli visti in “Shadow of the Comet”, i ‘Prisoner’ non sono neanche lontanamente spaventosi quanto il ‘non visto’ narrato nel gioco precedente e, in generale, il tutto risulta più piatto, più rilassante e, forse, non particolarmente lovecraftiano.
Ciò non vuol dire che la sceneggiatura non sia curata: si è di fronte, anzi, a uno script meno lineare di quello precedente, con diversi colpi di scena, un preciso crescendo e un ottimo ritmo. È vero che l’incipit sembra rubato al film “La Cosa” di John Carpenter, ma in seguito la trama prende una piega sci-fi piuttosto inaspettata, fino a un prefinale rivelatore piuttosto riuscito. Paradossalmente, a volte si ha la sensazione che gli eventi incalzino troppo rapidamente, e che la risoluzione finale sia gestita in tempi esageratamente stretti, forse per questione di budget: probabilmente una sceneggiatura meno ricca avrebbe attenuato il difetto.

Rinchiusi dai Nazisti, dovremo trovare una… ehi, quell’uomo a sinistra mi sembra di conoscerlo: è John Parker, protagonista di “Shadow of the Comet”. Passano gli anni, ma i look restano gli stessi, pare.

“Prisoner of Ice” prende le distanze dal precedente capitolo fin dalla grafica, che non sembra affatto il risultato di un’evoluzione tecnica di soli due anni, ma di una scelta stilistica completamente diversa, sostenuta da un comparto visivo molto più ambizioso. I personaggi, infatti, sono modellati in 3D e piazzati in sfondi bidimensionali, il che porta evidenti benefici alle animazioni, molto ben fatte e di gran numero. Per contro, meno evocativi e dettagliati appaiono gli sfondi e, in generale, l’intero ensemble grafico risulta essere meno oscuro e angosciante rispetto a quello apprezzato in “Shadow of the Comet” (esclusi gli ottimi interni del sottomarino e i gelidi ambienti finali). In ogni caso, i disegni a mano sono comunque un bel vedere, grazie anche all’oculato utilizzo dei colori.
L’aspetto più cinematografico è anche confermato da una serie di cutscene disegnate e minimamente animate e da (rari) filmati di intermezzo.
Le musichette campionate appaiono senza troppe pretese, mentre è assolutamente terribile il doppiaggio interamente in italiano: si parte da una recitazione a dir poco scadente fino ad arrivare a inflessioni dialettali (probabilmente neanche volute) del tutto fuori luogo, che dimezzano la credibilità generale dei personaggi.
Infine, si può stendere un velo pietoso anche sulla traduzione: l’errato adattamento dei vari termini rappresenta forse lo scoglio maggiore al superamento degli enigmi.

L’utilizzo del 3D per i personaggi consente di realizzare più facilmente inquadrature alternative.

Lontani dalla difficoltà (a volte, forse, troppo elevata) di “Alone in the Dark” e, sopratutto, di “Shadow of the Comet”, l’ultimo capitolo della trilogia si distingue per enigmi assai semplici ma stimolanti, infilati in locazioni sempre limitate e non particolarmente ricche; l’interfaccia immediata e il puntatore intelligente, inoltre, agevolano (magari troppo) il proseguimento naturale del gioco. L’accesso alle locazioni avviene a camere stagne: mentre in “Shadow of the Comet” si poteva gironzolare per il villaggio fin dai primi minuti di gioco, questa volta la struttura è più lineare e pilotata. Assente qualsiasi labirinto o momento di arcade puro: resta comunque la possibilità – frequente – di assistere alla morte del protagonista ma, questa volta, l’eliminazione dei vicoli ciechi permette di scamparsela in qualsiasi momento senza troppe difficoltà.

La resa dei conti. Una delle tante, almeno!

Prisoner of Ice” è la degna conclusione della trilogia lovecraftiana della Infogrames: a una sfida minima si contrappongono un buon intreccio e l’assenza di frustrazione; a uno stile grafico meno cupo e immersivo si compensa con animazioni fluide e realistiche; a una rigida linearità si bilancia con una sceneggiatura più varia ed elaborata.
Tutti gli ingredienti non sono dosati perfettamente, ma il divertimento, per fortuna, non manca.

     

La citazione (classica):
Ryan: Col volgere di strani eoni, anche la morte può morire. (nell’erronea localizzazione: “Vi sono strani mondi eterni in grado di far morire anche la morte”)

 

Nota: Questa volta è dura: per far girare discretamente “Prisoner of Ice” su sistemi moderni, bisogna dotarsi di Dosbox e di un PC abbastanza potente. Il gioco, infatti, è abbastanza esoso per il povero emulatore, e capita di dover sopportare l’audio che ‘salta’ o, nel migliore dei casi, solo dei caricamenti un po’ lunghetti.
Purtroppo non finisce qui: per emulare correttamente l’ambiente DOS, è necessario copiare il contenuto del CD in una cartella a piacere da montare con Dosbox come (unità) CD-ROM (e non come drive HD normale); in seguito, va anche montato il drive dell’HD. In questo modo, Dosbox crederà che la cartella da noi creata sia in realtà il CD stesso del gioco: solo in questo modo è possibile salvare i progressi di gioco (opzione altrimenti preclusa). Il gioco poi creerà automaticamente un’ulteriore cartella con i file di configurazione del sonoro e i salvataggi.
Questa guida per DosBox ‘puro’ replica sostanzialmente il mio sistema senza l’ausilio del wizard.

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Categories: videogiochi

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