The Curse of Monkey Island
Al limite delle proprie forze, Guybrush Threepwood naviga senza meta all'interno di una bizzarra imbarcazione (una macchina per l'autoscontro?), scrivendo le sue memorie: in qualche modo, è riuscito a scampare alla Fiera dei Dannati, la trappola tesagli dal suo acerrimo nemico, il pirata zombie LeChuck. Purtroppo, la sua fuga non gli ha lasciato granchè per sopravvivere.
Parlando del diavolo… Rumori di battaglia lo risvegliano dal suo torpore depressivo: la nave di LeChuck sta attaccando furiosamente il forte di Plunder Island, ridente isola in cui il governatore è la solita Elaine Marley, vecchia fiamma di Guybrush e preda sentimentale preferita del repellente zombie.
Grazie ad un intervento fortuito, Guybrush riesce brevemente a liberarsi di LeChuck e a recuperare, dalla nave distrutta, un enorme anello con diamante che decide prontamente di offrire alla bella Elaine come pegno d'amore. Grosso errore: l'anello era maledetto, e la donna viene trasformata in una statua d'oro. Compito di Guybrush sarà viaggiare verso Blood Island in cui, si dice, sia presente un diamante altrettanto grande in grado di spezzare la maledizione.
Ma il buffo pirata non ha idea che LeChuck ha più vite di un gatto ed è pronto a compiere la sua vendetta…
“The Curse of Monkey Island” è il terzo capitolo della saga caraibica di “Monkey Island”, senza alcun dubbio la più rappresentativa e amata dal grande pubblico delle avventure grafiche. Prodotto nel 1997 dalla LucasArts, questo episodio deve far a meno del creatore originale della serie, Ron Gilbert, che abbandonò la software house qualche anno prima. Lo rimpiazzano Larry Ahern e Jonathan Ackley: entrambi avevano lavorato (l'uno come capo animatore e l'altro come programmatore) a “Maniac Mansion - Day of the Tentacle”, e Ahern aveva già vissuto la sua esperienza guybrushiana come autore di alcune animazioni di “Monkey Island 2 - LeChuck's Revenge”. Il cambio di testimone comporta l'avere al timone due grandissimi appassionati della serie, che rispettano i lavoro precedentemente svolto e lo idolatrano in più punti, ma anche la consapevolezza che gli autori non hanno mai sviluppato un game design: infatti, il nuovo incarico li ha portati spesso in evidente difficoltà.
Ma procediamo con ordine.
Non più vincolati dalla grafica pixellosa di inizio decennio, si opta per uno svecchiamento visivo totale, a partire dai fondali disegnati a mano, che appaiono eccezionali e ricchi di dettagli: davvero degni di nota alcuni scenari di Plunder Island e ottimo l'utilizzo delle ombre su Blood Island. Vale anche le pena di ricordare chi è dietro questo pregevole lavoro: Bill Tiller.
Il restyling grafico continua con un drastico cambiamento del look dei personaggi: a degli sfondi - sempre misurati - caratterizzati da colori leggeri, si contrappongono character cartoonosi vagamente deformed, debitori dello stile visuale della Warner Bros e simili a quelli visti in “Day of the Tentacle” (non a caso lo stile porta la firma dello stesso autore, Ahern). La miscela non è male, i personaggi sono tutti ben disegnati e caratterizzati e le fluide e numerose animazioni completano adeguatamente il quadro.
Veramente spassose le espressioni facciali, in particolar modo quelle relative a Guybrush: con l'ausilio di solo un paio di frame si ricreano smorfie semplici ma sapientemente utilizzate nei giusti contesti, che strappano sorrisi in molte occasioni (l'animazione facciale era già stata il fiore all'occhiello della grafica di “Monkey Island 2 - LeChuck's Revenge”).
Eccellenti le cutscene: dei veri cartoni animati, spettacolari, divertenti e ben girati (guardare l'introduzione per credere).
Il primo memorabile incontro con Murray. Bene, se la sono fatta col teschio sbagliato, questa volta (cit).
Il sonoro merita un discorso a parte. Gli effetti, di ottima fattura, appaiono generalmente realistici, sia nei momenti 'di sfondo' (i rumori dei passi sui diversi terreni, i lontani suoni di battaglia sulla nave di LeChuck, lo scrosciare del mare) che in quelli più evidenti (lo stridere delle spade incrociate, le esplosioni, i colpi dei cannoni). Non mancano però esagerazioni tipiche da cartone animato, conseguenze dirette delle strambe situazioni e del particolare stile grafico adottato.
Un incredibile Michael Land (autore già delle musiche dei primi episodi), finalmente al lavoro con una vera orchestra, dà il suo meglio con una caterva di nuovi temi musicali che vanno oltre l'orecchiabilità, e finiscono per lasciare il segno anche a gioco chiuso. Non si contano i pezzi degni di menzione speciale: il divertente jazz di Voodoo Lady, l'action 'Swordfighting' durante i duelli all'arma bianca e la 'Sea Battles' nelle battaglie marine, la nostalgica musica all'hotel dei Goodsoup, il piratesco pezzo al 'Barbery Coast', l'indefinito brano durante la visuale ampia di Blood Island, e molto di più. Non mancano poi impareggiabili musiche di commento che da sole valgono l'intera atmosfera, alcune delle quali, mancando di una vera e propria melodia, assomigliano vagamente a quelle composte per “The Dig”, il capolavoro precedente di Land che fa il paio con la suddetta partitura.
In generale, si è scelto un approccio ancora più reggae del solito, oltre ad orientarsi sagacemente verso continue citazioni, rimandi e remix ai temi composti per i primi due capitoli di “Monkey Island” (il main theme, adeguatamente riorchestrato, è più bello che mai).
Inoltre, non si può proprio non citare l'uso pressocchè perfetto dell'iMUSE (il motore che permette alla colonna sonora di adeguarsi alle situazioni), che raggiunge livelli esemplari nella già citata 'The Barbery Coast' e nella sequenza delle montagne russe.
Impossibile, infine, non ricordare l'esilarante 'A Pirate I Was Meant To Be', una vera e propria canzone in rima (cantata da Guybrush stesso e dal suo improbabile equipaggio) facente parte di un momento della Parte 3 strutturato come un enigma dialogato. Purtroppo, con enorme rammarico, la sequenza è stata del tutto tagliata dalla versione italiana (presumibilmente a causa dell'impossibilità di trasporre adeguatamente le rime). Per fortuna, grazie a YouTube (click qui!), possiamo ugualmente dare uno sguardo all'eccezionale versione originale del pezzo.
Tirando le somme, quella composta per “The Curse of Monkey Island” è senza dubbio fra le migliori soundtrack realizzate per un videogioco: varia, dinamica e ispirata come quella di “Monkey Island 2 - LeChuck's Revenge”, ma con un arrangiamento ben migliore e senza limiti tecnologici.
Puerto Pollo sarà disseminata di esilaranti targhette esplicative circa i punti caratteristici del posto, che sia un fiore particolare, un pollo o delle semplici impronte sulla sabbia.
Difficile, poi, è stata la scelta delle voci per i personaggi, abituati com'eravamo ad immaginarle (nei primi due episodi era assente il parlato). Anche la versione italiana, d'altra parte, si è trovata la patata bollente fra le mani, ma si può comunque dire che il risultato finale appaia buono.
Per cominciare, molte righe di testo portano inevitabilmente a qualche imprecisione nell'adattamento e nei toni della recitazione, che si assesta su discreti livelli: svettano le perfette voci di LeChuck (ad opera di Zollo, voce di Sam in “Sam & Max - Hit the Road”) e di Murray (Riccardo Rovatti, anch'egli nell'avventura dei 'Freelance Police' nel ruolo di Max), e se la cava egregiamente un giovane e divertente Guybrush (Giuseppe Calvetti). Il temutissimo Stan non delude. Cito anche la simpatica caratterizzazione di Cucciolone, l'intrattenitore della Fiera dei Dannati, ad opera di Massimo Antonio Rossi, il Guybrush del futuro “Fuga da Monkey Island”.
Molto meno bene se la cavano le voci di Wally e, soprattutto, di Elaine (esageratamente snob e petulante).
Lasciano un po' interdette alcune scelte: la particolare recitazione adottata per la voce della sposa fantasma Goodsoup la rende noiosa e molto fastidiosa; lo scozzese Haggis parla con inflessioni partenopee (eppure quelle mi erano sembrate cornamuse, non mandolini); 'Aye' ('Sì' nel linguaggio marinaio) è tradotto con un fuorviante 'Ayò'.
Guybrush mostra le sue doti canore nel tentativo farsi accettare nel quartetto di cantanti pirati. Lo smilzo accanto è senza dubbio... colpito.
Con una prevedibile visuale in terza persona a tutto schermo, “The Curse of Monkey Island” eredita l'interfaccia di “Full Throttle”. Al posto del tatuaggio, infatti, troveremo un doblone che apparirà tenendo premuto il tasto sinistro del mouse e che ci permetterà di interagire con gli oggetti e i personaggi. Il tasto destro aprirà un vasto inventario che coprirà l'intera finestra e permetterà la manipolazione e la combinazione del suo contenuto. E' l'ennesimo perfezionamento del vecchio SCUMM, che in questo gioco raggiunge, forse, il massimo del compromesso fra facilità d'uso e numero di azioni possibili.
E gli enigmi? Beh, innanzitutto c'è una scelta da compiere prima dell'inizio del gioco: livello di base o 'megamonkey'. L'idea è naturalmente raccolta da “Monkey Island 2 - LeChuck's Revenge” ma, questa volta, ben lontana dall'essere riuscita: la versione lite non rende più semplici dei passaggi, ma taglia barbaramente (e discutibilmente) sezioni intere, peraltro divertenti e neanche particolarmente ostiche.
I puzzle si basano ovviamente sulla classica manipolazione di inventario e poco altro, e richiedono l'immancabile 'ragionamento trasversale' Monkey style. Ad una prima parte molto semplice, utile a prendere confidenza con i comandi e le atmosfere, si riparte con locazioni più numerose e enigmi 'liberi' (da svolgere, cioè, non necessariamente in ordine). I doloretti arrivano col passare del tempo in alcuni momenti un po' 'troppo' fuori di testa, perfino se si ragiona con la tipica Monkey logica. In virtù di ciò, la sfida c'è, ed è anche piuttosto altina, soprattutto su Plunder e Blood.
Spezzano il ritmo alcune sezioni 'alternative'. Durante la terza parte, ci imbatteremo in sequenze arcade di battaglia navale: realizzate un po' alla buona (anche la grafica è a dir poco spartana), complessivamente risulterebbero comunque piacevoli, se non suonassero ripetitive e gratuite dopo pochi minuti. Durante lo stesso capitolo, vengono anche riproposti i famosi duelli ad insulti di “The Secret of Monkey Island” rivisti però in chiave marinara, ovvero con le risposte in rima (molto divertenti quelle improvvisate di Guybrush).
In aggiunta a ciò, avremo un altro breve momento arcade (sparare con un cannone utilizzando una visuale in soggettiva) e una sezione a tempo nel finale, che replicherà (in misura assai più semplice) le battute conclusive di “Monkey Island 2 - LeChuck's Revenge”. Altre simpatiche variazioni aiuteranno a mantenere sempre viva l'attenzione del giocatore.
In generale, non ci troviamo di certo di fronte alla raffinatezza del mosaico dei puzzle del secondo episodio, e alcuni enigmi risultano essere forse un po' raffazzonati/dispersivi/ostici, ma siamo comunque al di sopra della media delle avventure, e il Lucas pitch è sempre ben presente anche grazie a meccanismi stracollaudati qui riprodotti in quantità.
Capitan Barbagialla è ossessionato dal temibile El Pollo Diablo. Riuscirà a catturarlo? Guybrush, intanto, contempla lo scheletro che pubblicizza il futuro "Grim Fandango".
E' davvero complesso riuscire a stendere una critica su “The Curse of Monkey Island”.
Il terzo episodio della saga è pieno zeppo di battute eccezionali e botta e risposta spassosissimi. Si ride di gusto fin da subito e non si contano i quote memorabili (i testi sono scritti da Chuck Jordan e Chris Purvis) e le situazioni comiche.
Probabilmente, “The Curse of Monkey Island” è il capitolo più umoristico della serie. Star assoluta è il (purtroppo) poco presente Murray, il teschio parlante assetato di conquista, ma lasciano il segno anche lo stereotipato 'cattivo' Re Andrè, l'attore teatrale Slappy Cromwell, il 'giovane virgulto dell'imprenditoria' Kenny e il capitano francese Rottingham, ossessionato dall'hairstyle. Non manca il ritorno di vecchi personaggi, a volte ottimamente sfruttati: come Stan, che risorge dalla bara nella quale era stato rinchiuso in “Monkey Island 2 - LeChuck's Revenge” con tanto di sorriso smagliante e biglietto da visita laminato; o il cannibale Testa di Limone/Lemonhead di “The Secret of Monkey Island”, questa volta passato a venerare un vulcano allergico al lattosio.
Dal punto di vista umoristico, l'avventura subisce una lieve flessione verso il basso durante il lungo pezzo su Blood Island (in realtà, anche gli enigmi si presentano meno divertenti). Probabilmente, negli intenti degli autori, la suddetta sezione avrebbe voluto richiamare l'atmosfera dark del secondo gioco e di parte del primo: il tentativo fallisce a causa di stereotipi (la cartomante rumena, il gestore di un albergo in malora) che sembrano puntare verso un tono nostalgico ma che in realtà appesantiscono e rallentano l'atmosfera generale. In questo, il compositore Michael Land dà il suo appoggio, e in effetti ci si accorge di come la sua validissima musica riesca, da sola, a sostenere anche un'atmosfera poco riuscita.
In ogni caso, si tratta di 'fasi' tutto sommato non troppo lunghe: per il resto si gongola fra una risata e l'altra.
Sicuramente, la Lucas non voleva bruciare un franchise così importante, ed ecco perché dedicò alla produzione un budget di tutto rispetto. In cinque/sei anni molte cose erano cambiate: i videogiochi, oramai fruibili dalla massa e non solo da pochi 'nerd', giravano su CD-ROM, richiedevano voci per l'intera durata dell'avventura, una grafica di impatto (il periodo coincide con l'affermazione delle schede acceleratrici 3D) e un'interfaccia dall'utilizzo immediato.
Le ovvie conseguenze di uno sforzo economico di questo tipo non si limitano ad un reparto audiovisivo curato ai massimi livelli, ma anche a decine di in-jokes, easter egg e secret disseminati dagli autori (l'orologio a Puerto Pollo che espone l'ora esatta, la bambolina voodoo di carta che può essere usata per torturare a distanza il povero becchino di Blood Island, la possibilità - durante la sparatoria col cannone - di mirare alle torri del fortino piuttosto che agli scheletri, etc). Non si contano le azioni 'inutili' alla trama, che sfociano nell'ennesimo momento umoristico (le classiche righe di dialogo 'nascoste' che attivano un botta e risposta particolarmente divertente) o in situazioni quantomeno curiose (dalla cripta dei Goodsoup, Guybrush si ritrova nella foresta di Meleè Island, corredata da grafica e sonoro del '90).
L'intero 'pacchetto', insomma, è studiato per soddisfare sia un giudizio di impatto che uno più pignolo, e l'avventura appare, nonostante i difetti sopra elencati, rilassante, divertente e scanzonata. Adatta davvero a tutti. Il voto del Corner supererebbe l'8.
Però… però… c'è un problema. Il nome “Monkey Island” è, insieme, il punto di forza e il Curse (gioco di parole di serie z) del gioco.
L'eredità di Gilbert era molto, molto pesante: come giustificare il finale di “Monkey Island 2 - LeChuck's Revenge”? Ahern e Ackley decidono di giocare sul sicuro, ambientando l'avventura prima nella soleggiata e caraibica Plunder Island e poi nella tetra Blood Island, proponendo atmosfere che in qualche modo cercano di riprodurre quelle viste nei primi capitoli come se niente fosse accaduto. La scelta di non rischiare porta poi a giustificare il criptico ending del gioco precedente nel modo più prevedibile: LeChuck aveva assemblato un Luna Park e trasformato Guybrush in bambino con un incantesimo. I numerosi punti oscuri della trama vengono infine sviluppati e chiusi durante un lunghissimo dialogo Guybrush/LeChuck nell'ultima ora di gioco.
Avendo scelto (purtroppo!) di fare un passo indietro nella grande trama di “Monkey Island” (per la precisione, subito prima dello scontro finale nella seconda avventura), non restava che arrampicarsi sugli specchi nel modo più convincente possibile. E, oggettivamente, il lavoro degli autori di dare un senso anche ai dettagli è encomiabile: ogni pezzo viene messo a posto e ogni sottotrama è spiegata. Il tutto cercando di tralasciare solo il minimo indispensabile (ad esempio, la presunta parentela fra i due protagonisti). Ahern e Ackley si dimostrano non solo dei fan della saga, ma anche dei validi 'studiosi' della sua mitologia: la continuity è salva.
Una bellissima visuale d'insieme della tetra Blood Island. Quel vulcano non sembra particolarmente sotto controllo...
Naturalmente, non sono tutte rose e fiori. Aver riportato il plot dall'allucinato al prevedibile comporta una ovvia riduzione della freschezza della narrazione, peraltro nient'affatto sostenuta da una sceneggiatura e un intreccio degni di questo nome: la quest di Guybrush di riportare Elaine in carne ed ossa è trascinata lungo quasi tutta la durata dell'avventura, con un LeChuck sullo sfondo che, senza neanche un piano di qualche tipo, si limita a vegliare nella speranza di acciuffarli.
E' tutto molto, troppo lineare. La storia, impegnata com'è a tappare i buchi precedenti e a sfruttare i risvolti comici, non riserva alcun colpo di scena o evoluzione, e si arriva al finale (breve e insoddisfacente) fra sottotrame personali che non arricchiscono per niente il canovaccio principale. Come se non bastasse, la storia d'amore fra Guybrush ed Elaine, criticata da Ron Gilbert stesso, è assai anti-monkeyislandiana.
Inoltre, sia le atmosfere che l'umorismo sono ben lontani dai toni grotteschi e spesso macabri dei precedenti episodi: prende il loro posto una demenzialità più che spinta (ennesimo punto di contatto con “Day of the Tentacle”), condita da dosi massicce di citazioni e riferimenti. Sarà forse a causa del look cartoon - che rinnega e poi cozza con lo stile tendente al fotorealistico dei precedenti episodi - o della trama più a misura di bambino, ma gli autori si sono dimostrati, nella pratica, incapaci di costruire qualcosa che andasse oltre il mero fun. E, quando ci provano (Blood Island), i risultati si mostrano mediocri (a parte l'allucinata sezione che segue la metamorfosi di Guy in un bambino).
Non c'è traccia quindi del caricaturale ma pur sempre terrificante vooodo delle precedenti avventure, né di una componente lontanamente 'seriosa'. Più di ogni altra cosa, manca una seconda chiave di lettura: mi riferisco a quel 'sottotesto' che rendeva tanto speciali le storie di Ron. Piuttosto, si ride e basta.
Ma gli aspetti sopra menzionati non sono gli unici a venire snaturati. I vecchi personaggi sono quasi tutti ridotti a delle macchiette funzionali nei momenti comici ma del tutto inesistenti fuori da essi. E così, se si può sopportare una Voodoo Lady che vive alla luce e sembra più una vecchia amica che una sacerdotessa, o un Wally ridotto a piangere in ginocchio perché non riesce ad essere abbastanza 'cattivo', proprio non si può passare sopra una Elaine Marley divenuta inutilmente violenta e aggressiva e, soprattutto, bisbetica (addio quindi al fascinoso, rude e severo Governatore di Meleè).
Ma c'è di peggio. Il terribile pirata LeChuck, lo stesso che appariva all'improvviso fra i tunnel di Dinky Island facendoci sobbalzare dalla sedia, è oramai una figurina comica: un povero sfigato represso che cerca di conquistare Elaine a suon di cannonate, ma che finisce per essere deriso da noi spettatori per la sua goffaggine. Il 'nuovo' LeChuck è, addirittura, protagonista (sia in prima persona sia come spalla) di innumerevoli momenti buffi, con tanto di smorfie volte a sottolineare il suo nuovo ruolo. Divertente e imbranato, ma tutt'altro che spaventoso.
Alterata anche la coerenza sulla sua natura: se, nel primo gioco, era il fantasma di un corpo conservato altrove e rispuntato come zombie successivamente, ora è un improbabile 'demone' resuscitato da un paio di stivali (!). Il look fiammeggiante è molto bello, per carità: semplicemente, la sua 'immortalità' non ha nessun senso, neanche nella logica contorta di “Monkey Island”. Nel finale, il tutto viene risolto spiegando che Big Whoop doni una vita eterna come cadavere ambulante, ma, tralasciando la conseguente inspiegabilità delle sue metamorfosi precedenti, la trovata (gratuita) rende LeChuck una nemesi praticamente invincibile e, quindi, molto meno 'realistica' e carismatica.
Guybrush, per fortuna, resta nel complesso accettabile, anche se sembra essere tornato indietro al primo episodio (abiti compresi): più sicuro e 'cartoonoso' del solito, sembra aver accettato felicemente la sua buffa natura, imparando a conviverci e a sfruttarla a proprio vantaggio.
Il viscido ma professionale Stan, questa volta, tenterà di rifilarci delle assicurazioni sulla vita. Ma Guybrush riuscirà a raggirarlo...
Accorgendosi forse di non riuscire a reggere il confronto col buon Ron, i due neo-designer tentano poi di riproporre fino alla nausea gli spunti più apprezzati delle precedenti avventure, rendendo di fatto “The Curse of Monkey Island” un vero e proprio remake in forma cartoonosa dei primi episodi.
I riferimenti e i rimandi a vecchi meccanismi sono fin troppo palesi, ma la cosa è resa ancora più evidente quando vere e proprie caratteristiche vengono riprese pari pari: parlo dei dilatatissimi duelli ad insulti tratti/copiati da “The Secret of Monkey Island”, o della missione 'ciurma, nave e mappa', o delle visite al cimitero. Più di ogni altra cosa, va sottolineato lo scontro finale che ammicca al duello con le bambole voodoo di “Monkey Island 2 - LeChuck's Revenge”, la cui efficacia è lontana anni luce da quella del capostipite.
A voler fare un discorso più generale, ci si accorge come “The Curse of Monkey Island” non abbia praticamente nulla di realmente fresco o innovativo: perfino le gag più riuscite sono replicate (il serpente che ingoia Guybrush, circondato da armi irraggiungibili). La trappola, nella quale i due autori sono cascati in pieno, è che a forza di prostrarsi di fronte al mito si rischia di apparire solo come due fan incapaci di possedere un'impronta personale, trasformando in veri e propri plagi quelli che volevano essere miglioramenti, ampliamenti ed omaggi al passato.
Di buono c'è che, con questo particolare approccio, Ahern e Ackley hanno avuto il merito di rendere appettibile “Monkey Island” anche a chi non aveva mai conosciuto un'avventura grafica, e di far nascere un esercito di 'nuove leve' di avventurieri, nate grazie alla passione per il mondo da loro 'rielaborato'.
La sezione 'infantile' ha un che di disturbante, nonostante la presenza del simpatico (si fa per dire) Cucciolone. Un momento, che ci fa quel teschio inquietante dall'aria temibile sullo scaffale?
Questa lunga analisi può essere chiusa in un solo modo: “The Curse of Monkey Island” è un'eccellente avventura umoristica.
Niente più.
Voto: 4 su 5.
La citazione:
Murray: “Sono una potente forza demoniaca! Sono il messaggero della tua disfatta! E le forze delle tenebre mi applaudiranno quando varcherò i cancelli dell'inferno portando la tua testa su una lancia!”
Guybrush: “Varcherò?”
Murray: “E va bene… ROTOLERO' attraverso i cancelli dell'inferno. Devi per forza fare il guastafeste?”
 
Nota: Ho giocato “The Curse of Monkey Island” grazie allo ScummVM su Windows XP. La resa grafica è perfetta: purtroppo, però, c'è qualche problema all'iMUSE durante la sezione dei duelli alla spada. Inoltre, questo sistema cancellerà la schermata delle opzioni contenente la famosa gag sull'accelerazione 3D (se si cliccava, nella speranza di attivarla, si veniva avvertiti con un 'Scherzavo, non c'è accelerazione 3D in questo gioco. E' inutile che continui a premere!').
Se non si è disposti a passarci sopra, si può sempre provare a farlo girare su XP settando la compatibilità a Windows 98 e disabilitando l'accelerazione audio: dovrebbe andare.
Comunque, dal 2007 è in commercio una riedizione compatibile coi sistemi odierni ad un prezzo budget.
Grazie a Lucasdelirium per la bella immagine della locandina (la cui firma, questa volta, non è quella di Steve Purcell, ma di Ahern stesso).
by Gnupick
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Recensione The Curse of Monkey Island. Gnupick's corner, l'angolo delle avventure grafiche. Recensioni, commenti, schede, analisi, retrogaming, discussioni su graphic adventures ed altri videogiochi non solo punta e clicca. Recensioni di giochi per PC con visuale in prima persona o in terza persona.
i fondali di Bill Tiller sono semplicemente meravigliosi, le musiche di Michael Land probabilmente il suo capolavoro, tanto che a tratti sembrano quasi sprecate sulla traballante sceneggiatura di questo episodio. il risultato è uno spettacolo. le atmosfere di Plunder Island e soprattutto Blood Island sono le vette più alte toccate nella saga di Monkey Island.
non che il resto sia da buttare, sia chiaro...
alla fin fine il lavoro di Ahern e Ackley è passabile. qua e la si sorride (ma l'umorismo dei primi episodi è ben lontano) ed ogni tanto qualche elemento spicca più degli altri (il personaggio di Murray, la sequenza di Skull Island).
niente di più però.
CMI è appetibile ad un pubblico più giovane, è un cartoon, non c'è paragone con la freschezza del primo episodio o la verve creativa spinta ai limiti del delirio di Lechuck's Revenge. e alla fin fine sarebbe stato stupido aspettarsi che questo episodio eguagliasse i precedenti, è stato fatto quanto di più intelligente si potesse fare per un impresa del genere: CMI è un enorme riassunto del meglio dei primi due episodi e alla fin fine se lo si prende come mega-omaggio lo si può apprezzare di più.
Sfigura –inevitabilmente- di fronte ai predecessori, ma resta un avventura passabile. passabile e niente più.