Fuga da Monkey Island
Parlare di “Monkey Island” in termini positivi è fin troppo facile. Azzardando un parallelo, si può constatare come la serie della LucasArts, inizialmente concepita da Ron Gilbert, possa considerarsi l'equivalente videoludico del cinematografico “Ritorno al Futuro”: simboli pop-culturali di una generazione e di un'epoca non lontana, le due saghe sono apprezzate in qualsiasi fascia d'età e da persone dai gusti più disparati, poiché costruite con intelligenza tale che è improbabile che 'non piacciano'. L'atmosfera leggera, le trovate umoristiche e il tono scanzonato hanno decretato, più di ogni altra cosa, il successo della serie lucasiana. Osservata con sommo rispetto anche da chi non l'ama particolarmente, e vaga reminiscenza culturale anche per i non avventurieri, “Monkey Island” scatena - al meglio - fanatismo sfegatato o - al peggio - del composto ma sano divertimento: di certo non lascia indifferenti.
Jonathan Ackley e Larry Ahern, con il loro esilarante ed apprezzato (sebbene poco coraggioso) “The Curse of Monkey Island” (anno 1997), erano riusciti non solo a regalare un degno seguito ai primi due capitoli di Gilbert, ma anche a trionfare nell'arduo compito di rilanciare il fandom della saga, espandendolo ad un esercito di nuovi 'giovani' appassionati. Gli stessi fan avevano quindi atteso trepidanti e colmi d'attesa l'ultimo - il quarto - titolo della saga, datato 2000.
“Fuga da Monkey Island” (in originale “Escape from Monkey Island”), generalmente ben valutato dalla critica, è stato però un totale fallimento agli occhi dei fan, giudicato non solo il peggiore della serie, ma addirittura l'avventura meno riuscita della casa californiana. Proprio i più smaliziati, fra i vecchi ammiratori, sono stati i più feroci ed implacabili critici: una pioggia di commenti negativi che ha provocato una fama tremenda al suddetto episodio, tenuto a distanza da 'chi può' e causando un'ulteriore 'mitizzazione' dei primi tre capitoli (alimentata anche da Gilbert stesso). Conseguenza: chiusura in massa di molti fansite dedicati, triste ritiro della LucasArts dal mondo delle avventure grafiche, e delusione generale mascherata da rabbia.
Ma siamo sicuri che sia tutto così meritato?
Guybrush ripensa ai momenti chiave della sua vita. Il momento per farlo è ovviamente sbagliato, come scopriremo poco dopo.
Nonostante l'ottima qualità, la precedente avventura grafica della LucasArts, “Grim Fandango”, era stata un parziale insuccesso di vendite. La software house decise quindi di puntare su un franchise più 'sicuro', affidando il nuovo episodio all'unica coppia - di un certo peso - rimasta fra le loro fila nel campo delle avventure grafiche: Mike Stemmle e Sean Clark. Già al lavoro insieme nel classico “Sam & Max - Hit the Road” (Clark era poi stato, da solo, l'eroico artefice del salvataggio del progetto “The Dig”), ai due game designer venne quindi mollato lo spinoso compito (e non sarebbe stata l'unica…): traghettare Guybrush e soci nello sfavillante ma ancora incerto mondo del 3D, con una storia che non avesse più la necessità di spiegare i deliri dell'autore originale ma che potesse tentare di camminare con le proprie gambe. Se da una parte, quindi, l'intento era quello di dare una personalità più definita al titolo, ammiccando talvolta ad un gran finale (l'eventuale quinto episodio), la scelta fece inevitabilmente tremare le ginocchia, e pertanto spesso si optò per un'operazione dal sapore nostalgico, che riprendesse e citasse a man bassa il capostipite (“The Secret of Monkey Island”).
Ma è meglio procedere con ordine, a cominciare dal plot di base.
Il felicemente ammogliato Guybrush Threepwood (ricordate il finale di “Curse”?) ripercorre, nel bel mezzo di una furiosa battaglia pirata, i passi salienti della sua vita. In seguito al solito intervento demenzial-fortuito, il nostro riesce a portare le sorti della battaglia a suo favore. Dopo quest'avventura di routine, Guybrush e la sua consorte Elaine Marley approdano sulla vecchia Melèe Island, perché questa riprenda il posto di Governatore. Ma al loro arrivo scoprono che, durante l'assenza, Elaine è stata data per morta, facendo quindi crollare il mandato governativo. Alla giovane pirata non resta quindi che farsi rieleggere, ma dovrà affrontare Charles L. Charles, uno strano candidato dai modi aristocratici. A Guybrush ovviamente andrà il compito più infausto (nonché idiota): navigare verso Lucre Island e parlare con gli avvocati di famiglia, trovando il modo di far dichiarare Elaine come 'persona vivente'.
Eppure il vero problema non si celerà dietro la rielezione o l'identità di Charles L. Charles (che da lì a poco si scoprirà essere il sempre redivivo LeChuck), ma nell'ombra: un misterioso imprenditore proveniente dalle terre australiane (?), Ozzie Mandrill, sta acquistando con l'inganno (attraverso duelli ad insulti nei quali è apparentemente imbattibile) tutti i terreni dei Caraibi, rielaborandoli a modo suo. Sotto lo sguardo (poco) sveglio di Guybrush, il mondo piratesco - che oramai l'ha accolto a tutti gli effetti - sarà a poco a poco trasformato in una sorta di attrazione per turisti, figlia del volere sadico di Mandrill stesso, per qualche motivo deciso a 'rieducare' ogni pirata e renderlo schiavo inconsapevole del suo sistema. La missione potrà considerarsi davvero conclusa solo impedendo ad Ozzie di appropriarsi dell'arma definitiva, l'Insulto Supremo, capace di distruggere la mente del più fiero fra i pirati.
Come si può intuire, la sceneggiatura di “Fuga da Monkey Island” appare piuttosto ricca e più ambiziosa fin dalle premesse, almeno per quanto riguarda il paragone con il primo e il terzo episodio della serie.
Malgrado ciò, l'impatto iniziale non è dei migliori. Durante i primi minuti, infatti, ci accorgiamo come il gioco abbia un bel po' di pezzi fuori posto. Il paragone con “Curse” è inevitabile (essendo il primo titolo della serie rivolto ad una nuova generazione), e “Fuga” ne esce più volte sconfitto.
I titoli di testa scorrono su immagini realizzate col motore stesso del gioco: niente a che vedere con la spettacolare introduzione cartoon vista nel titolo precedente. Inoltre, la sequenza è accompagnata dal famoso main theme della serie, per la prima volta non riarrangiato (è il vecchio composto per “Curse”, peraltro montato in modo discutibile).
D'altro canto, il gioco comincia con un breve prologo interattivo (Guybrush deve sconfiggere la nave pirata che li attacca) abbastanza divertente, sebbene molto fugace e ancora una volta inferiore all'intensità dell'intro del terzo gioco.
Purtroppo, prendendo in mano i comandi, arriva l'ennesima doccia fredda: il classico controllo via mouse è stato sacrificato in favore della sicuramente non riuscitissima interfaccia di “Grim Fandango”. A ben vedere, qualche gradita miglioria è presente (ora è possibile decidere verso quale oggetto orientare lo sguardo con i tasti PAGUP e PAGDOWN, e richiamare l'inventario ad anello - in tutto e per tutto uguale a “Tomb Raider”, argh! - con il tasto I), e comunque si è visto molto di peggio nell'ambito delle avventure 3D, ma sicuramente per la serie si tratta di un passo indietro per quanto riguarda la semplicità d'uso.
La Sacra Testa di Scimmia(tm) riserverà molte sorprese, a cominciare dall'estetica (me la ricordavo più 'organica').
Superata la sequenza, si assiste ad una buona cutscene, realizzata in Full Motion Video utilizzando la grafica stessa del gioco: ciononostante, “Curse” vince ancora il confronto (con i suoi splendidi filmati a cartoni animati), ma ormai cominciamo quasi a farci l'abitudine.
Approdati su Melèe Island, può avere inizio l'avventura vera e propria, e si può giudicare l'aspetto visivo nella sua totalità. La prima buona notizia (finalmente!) arriva dal look dei personaggi, che appare come una via di mezzo fra lo stile adottato nei primi due capitoli e quello estremo e cartoonoso visto in “Curse”: il risultato della scelta è un aspetto coerentemente più sobrio, che in qualche modo conserva una certa continuità visiva senza spiazzare il giocatore, come accaduto invece nel titolo di Ackley e Ahern.
Purtroppo però, nonostante la qualità poligonale dei disegni non fosse malvagia per i tempi (l'espressione di default di Guybrush - ovvero perennemente stranita - è divertente), i personaggi di “Fuga” escono ancora una volta con le ossa rotte nel confronto diretto con la grafica bidimensionale senza tempo di “Curse”. Poco evidente alla sua uscita, la differenza risulta più marcata ad ogni anno che passa: il giovane 3D è sconfitto dal sempreverde 2D. A guadagnarci è invece la fluidità delle animazioni (non numerosissime, a dire il vero), ma è un po' poco.
Sconfitta anche sul fronte fondali: il lavoro di Tiller per “Monkey Island 3” poteva essere difficilmente superato, sebbene “Fuga” non si difenda poi tanto male.
Lo Scumm Bar: un luogo pieno di maiali puzzolenti ed ubriaconi... posto perfetto per perfezionare i nostri insulti.
Altro marchio caratteristico della serie è sempre stato l'ottimo sonoro, ed anche su questo profilo i risultati appaiono accettabili ma non eccezionali. A Clint Bajakian, ormai al lavoro come freelance, va il compito di 'riunire la banda' e assoldare gli amici Michael Land (storico compositore della saga) e Peter McConnell, ai quali affianca i più giovani Michael Lande (un quasi omonimo!) e Anna Karney. Il lavoro di gruppo appare buono (specialmente nei mix, ed in particolare nelle cutscene) ma decisamente meno uniforme e convincente rispetto a “Monkey Island 2 - LeChuck's Revenge” e “The Curse of Monkey Island”, in cui la colonna sonora aveva raggiunto vette d'eccellenza. Si fatica perfino a trovare tracce del vecchio iMUSE.
Il temutissimo Monkey Combat. JoJo Junior cita (o meglio, cheeta. Questa era pessima) con disinvoltura le movenze di "Karate Kid".
Insomma, come giudizio estetico globale, “Fuga da Monkey Island”, nonostante i tre anni di vantaggio, è inferiore a “Curse” sotto quasi ogni aspetto.
Il confronto, che ammetto essere stato impietoso, è necessario porlo almeno durante i primi minuti di gioco, poiché l'impatto iniziale può apparire quasi traumatico agli occhi di chi ha apprezzato la veste audiovisiva del terzo gioco. E' giusto però continuare ad infierire sull'aspetto meramente spettacolare, probabilmente causato da un budget di produzione decisamente meno considerevole? Sicuramente no: “Monkey Island” è, da sempre, molto altro.
Charles L. Charles sarà l'avversario di Elaine più temibile durante le elezioni. Promette 'bagordi e grog gratis'... sarà vero?
Chi si aspettava però di 'sentirsi a casa', ripercorrendo i familiari vicoli di Melèe, potrebbe avere l'ennesima brutta sorpresa: la primissima isola della serie è infatti stata 'riadattata' alla nuova grafica e ricorda solo vagamente quella ammirata nel capostipite del 1990 (al massimo è permesso un fugace deja vu). Si possono capire le necessità - grafiche e narrative - di dover modernizzare la grafica ed eliminare locazioni inutili, ma onestamente il passaggio è troppo libero, e difficilmente si ha la sensazione di ritrovarsi davvero a vagare all'interno dell'isola originale (si sarebbe fatto molto di meglio nel passaggio dal 2D al 3D per gli ambienti parigini di “Broken Sword III - Il Sonno del Drago”).
Stessa sensazione - e forse addirittura più accentuata - si prova durante il successivo e attesissimo ritorno alla mitica Monkey Island.
Quello finora detto fa quindi pensare ad un titolo magari accettabile, ma effettivamente al di sotto non solo della saga, ma degli standard lucasiani in generale. Ma c'è qualcosa di 'davvero' buono?
In effetti, un discorso a parte merita il doppiaggio italiano, davvero di altissimo livello e con poche sbavature. L'istrionico Massimo Antonio Rossi (già Cucciolone in “Curse”) prende splendidamente il posto del comunque buono Calvetti come Mr. Threepwood: la recitazione ne guadagna parecchio e l'esito è eccellente, soprattutto se si considera che l'attore ha anche doppiato (in modo totalmente diverso ma altrettanto vincente) Ozzie Mandrill.
Il compianto Cesare Zollo conserva il ruolo di LeChuck ed offre ancora una volta un'ottima performance; più misurata anche Grazia Verasani, che si adatta all'approccio maggiormente 'discreto' del personaggio di Elaine. Menzione d'onore per Dario Turrini nei panni di Otis.
Sul fronte enigmi, per fortuna, la LucasArts non si smentisce. Di lunghezza più o meno pari ai suoi fratelli maggiori (l'avventura è divisa in tre parti, più una molto breve), “Fuga da Monkey Island” introduce due nuove isole (Lucre e Jambalaya, la quale comprende anche il piccolo Atollo Knuttin) oltre a quelle prese in prestito dal primo gioco (Melèe e Monkey), e ciò garantisce una certa varietà di situazioni. Stemmle e Clark si sforzano di non piombare ancora nei classici meccanismi della serie, che a questo punto apparirebbero più che riciclati (così come in parte era accaduto con “Curse”). Per aggirare l'ostacolo, gli autori scelgono intelligentemente di riproporre i clichè nelle vesti di semplici citazioni, come nel caso dell'inevitabile enigma 'trovare ciurma/nave/mappa' (visto nel primo e nel terzo gioco) su Melèe, ridotto ad un paio di problemi abbastanza semplici e - soprattutto - veloci da risolvere.
Voler relegare il buon LeChuck come bad guy numero 2 (almeno per un po') è figlio di questo approccio particolare, che conserva i 'marchi di fabbrica' ma non li piazza insistentemente in primo piano, evitando il più possibile il 'già visto'.
Via anche i classici e famosi duelli ad insulti, riprodotti con scarsa inventiva nel gioco precedente: in “Fuga” sono comunque presenti un paio di scontri (di cui uno impossibile da vincere), ma valgono come 'strizzata d'occhio' al fan o poco più. Per non intraprendere quindi la strada della ripetizione troppo insistente e sconsiderata, già battuta dai loro predecessori, gli autori scelgono di sostituire i duelli alla spada con una variante, chiamata 'Monkey Combat' (palese riferimento alla famosa saga di picchiaduro “Mortal Kombat”), che ha fatto molto discutere i fan: nella fattispecie, si è chiamati ad imparare il 'linguaggio dei primati', costituito da quattro parole chiave che, combinate in un certo modo, ci permetteranno di avere la meglio sul nostro avversario (una, ehm, scimmia). L'idea è demenziale quanto basta: il problema è che dopo poco il divertimento cede il posto ad un'operazione meccanica che non può avvalersi dei letali insulti scritti a suo tempo per “The Secret of Monkey Island” per tener viva l'attenzione. In ogni caso, l'enigma del Monkey Combat non supera i 40 minuti di gioco, quindi non è il caso di lamentarsi troppo.
Ozzie Mandrill è un maestro nei duelli ad insulti: nessuno può resistere al raggelante 'Quando avrò finito con te, preferirai farti adottare da un koala'!
Parlando di puzzle più in generale, si può osservare che la prima sezione su Melèe funge da lungo prologo durante il quale è molto difficile bloccarsi. Approdati poi su Lucre, ci sarà ben poco da scherzare: il mosaico dei puzzle è complesso proprio come ai vecchi tempi, con godibilissimi picchi di inventiva (l'iter per trovare la casa di Pietro Nasodilegno) e un livello globale più che buono. Divertenti anche le peripezie su Jambalaya (nota di merito alla ricerca per il cappello di bronzo), mentre forse si poteva dare qualcosina in più durante la sezione su Monkey Island (composta quasi per metà dal Monkey Combat), anche se c'è da dire che il momento soffre del crudele confronto con il primo episodio.
E' giunto quindi il momento di parlare dell'argomento più spinoso e - a mio avviso - quello fondamentale dell'intera serie: la narrazione in senso stretto, che comprende sceneggiatura, dialoghi e personaggi.
L'enigma nelle Paludi del Tempo è uno dei migliori dell'intera avventura. Ehy, non è mica un X-Wing quello sullo sfondo?
I difetti sopracitati (soprattutto quelli relativi al 3D e al famigerato Monkey Combat) non erano che la punta dell'iceberg: ciò che veramente ha fatto accanire i fan a questo titolo è stato proprio il 'tono' dell'avventura.
“Fuga da Monkey Island” è, in effetti, un animale strano, a volte in bilico fra la mezza ciofeca e il capolavoro mancato. E' un gioco che per sua natura non va incontro al giocatore - né, soprattutto, al fan - e che dimostra alcune sue indecisioni proprio quando si sforza di compiacerlo.
Stemmle e Clark realizzano un titolo complesso, decisamente più personale e coraggioso del precedente quasi-remake “The Curse of Monkey Island”. In quanto a profondità narrativa e tematiche il gioco non ha nulla da invidiare ai due leggendari episodi, benché non condivida con essi la (parziale) semplicità di 'lettura'. In altre parole, “Fuga” affronta dei temi insoliti e soprattutto inaspettati in un tale contesto, finendo così per spiazzare il giocatore, posto di fronte a qualcosa di atipico e volontariamente disturbante.
Il gioco tenta - con successo - di possedere un'impronta ben precisa, ma poi compie timorosamente qualche passo indietro, cercando di infilare scenari e brevi situazioni che 'rassicurino' il tipico giocatore monkeyislandiano. A volte il bilanciamento è buono (i riferimenti fanno sorridere, il ritorno su Melèe e Monkey è tutto sommato gradito, le situazioni già viste vengono poste come simpatiche ammiccate), altre volte molto meno (la presenza forzata di alcuni vecchi personaggi e di elementi di continuity del tutto sballati, di cui parlerò meglio in seguito).
LeChuck si svela di fronte ai suoi rivali di sempre. Questa volta, il suo piano è più elaborato che in precedenza...
Gli autori avevano già affrontato il tema della globalizzazione in “Sam & Max - Hit The Road”: in questo caso, però, non sono gli Stati Uniti il bersaglio del duo, bensì la società in generale. La satira di “Fuga da Monkey Island” è sottile e molto potente, e raggiunge il suo massimo compimento proprio nel sembrare fuori contesto all'interno della saga.
Il mondo di Guybrush, fin dalle prime avvisaglie su Melèe e, successivamente, nel post-Jambalaya, cambia lentamente ma inesorabilmente di fronte ai suoi e - soprattutto - ai nostri occhi: il vecchio 'Scumm Bar' è sostituito dal 'Lua Bar' (il che e' anche un joke riferito al cambio di engine, dal mitico SCUMM al GrimE, basato appunto sul linguaggio di scripting LUA), il mondo folle di Monkey Island è ridotto ad una commercializzazione diretta ad un'orda di stupidi turisti, i pirati sono 'rieducati' e resi ingranaggi stessi di una società ridicola (i pochi che si ribellano vengono confinati in una sorta di 'isola prigione').
Guybrush, nuovamente in balìa degli eventi (come nelle prime due avventure) è sballottato in un ambiente kitsch e disgustosamente trendy, impostato in modo tale da credere che sia alla moda atteggiarsi da pirata e mangiare del sushi in un bar a tema. Il nostro eroe (che, da giovane adulto quale è, non rinuncia a brevi ma esilaranti flirt con le ragazze che incontra) è coinvolto in un mondo che non gli appartiene più, di nuovo un pesce fuor d'acqua: il suo stesso nome è mercificato (il 'Planet Threepwood' su Jambalaya) e la sua vita trasformata in uno stereotipo atto a vendere dei gadget. Non può che lottare contro il declino dei Caraibi, spolpati dall'interno, e la cui essenza risiede - paradossalmente - proprio nella sua figura, un tempo antitesi (con le sue scarpine lustre e l'aria da damerino) di quel mondo che ora deve difendere per non perdere l'identità faticosamente guadagnata.
Lo Scumm Bar si è trasformato nel Lua Bar, noto locale alla moda: a me una corona di fiori e del sushi! ...ma cosa sto dicendo?
E' proprio attraverso l'immagine di Guybrush che è possibile tracciare una sorta di parallelo simbolico dell'intera saga, che appare per la prima (e forse unica) volta sorprendentemente unitaria e compatta, come se fosse frutto di una progettazione a tavolino di un solo autore/demiurgo (e sappiamo che non è così):
- “The Secret of Monkey Island” rappresenta la stilizzazione dell'infanzia, con i cattivi che sembrano cattivi e che puzzano di grog, la bella in pericolo e la confortante linearità: sebbene sia tutto così semplice, l'inesperienza generale rende ogni sforzo del tutto vano e porta a sfidare mulini a vento;
- “Monkey Island 2 - LeChuck's Revenge” possiede un tono del tutto diverso: sporco, dark, ben poco raffinato. Il protagonista deve sapersi gestire in un mondo che scopre essere ben più complesso di ciò che credeva (il retaggio di LeChuck), imparando a muoversi in esso come nei meandri oscuri dell'adolescenza. Affermare se stessi è ancora più difficile che in precedenza;
- In “The Curse of Monkey Island”, che piaccia o meno, si è integrati di quel mondo, e finalmente si può giocare in esso e con esso senza timore. Il sé (magari goffo e impacciato, ma lo si accetta) è parte attiva di un ambiente di cui oramai si conoscono le regole, e si può condurre il destino lungo i binari che si vuole (il tono più umoristico, il sospirato matrimonio con Elaine), così come accade durante la giovinezza: magari è inconscia, superficiale, scavezzacollo, ma, per la prima volta, ci si sente capaci di pilotarla con una certa sicurezza;
- Il mondo si evolve più velocemente di noi: si è dinosauri in un mondo di giovani. L'ambiente che abbiamo imparato a conoscere si trasforma ad un ritmo estremo che non siamo più in grado di controllare. “Fuga da Monkey Island” è la lotta di un adulto contro un territorio nuovamente ostile ed alieno, in cui si è fossili quasi mitologici da osservare con distacco, come in una leggenda solo parzialmente reale. E' uno scontro a senso unico che ci vede sconfitti, e non c'è altro da fare che restare - per quanto possibile - fedeli a se stessi e ritagliarsi un posticino all'interno di un mondo allo sbando che ci vede come i simboli distorti che non siamo mai stati.
Murray ha trovato lavoro come buttafuori, ma nel profondo di sè è ancora tentato dalla conquista del mondo.
E' quindi necessario riuscire a cogliere ed accettare la satira di “Fuga”: lo snaturamento dell'atmosfera tipica è il cuore stesso della provocazione (che, come quelle più efficaci, è paradossale, grottesca, umoristica) e del messaggio lanciato dagli autori. Sentirsi straniti - o addirittura traditi - fa parte del gioco, e posso assicurare che talvolta può risultare davvero difficile rendersi conto di avere fra le mani un episodio di “Monkey Island”: l'immedesimazione con il povero Guybrush, stordito almeno quanto noi, è dunque estrema. Salvare i Caraibi è forse una missione troppo grande per lui, ma dona alla storia un tono epico che mancava alla vicenda casereccia di “Curse”: in particolare, le battute finali (che non rinunciano a dosi massicce di umorismo parodistico: è un esempio la trovata della RoboScimmia, riferimento agli anime robotici giapponesi che spadroneggiavano negli anni '70) sono davvero eccitanti e praticamente inedite nel contesto della saga.
In questo senso va anche segnalata l'ottima realizzazione cinematografico-narrativa delle varie cutscene, le quali spesso succedono nel compito di risollevare parzialmente un ritmo non esattamente iperbolico.
Guybrush ed altri due 'colleghi' sono al centro di rieducazione per pirati, sotto lo sguardo vigile della dolce maestrina. Nell'immagine si può anche vedere come tutte le scritte siano state tradotte in italiano (così come nel resto del gioco).
Mentre la sceneggiatura di “Fuga” è molto elaborata ed appagante (con un inizio soft, un preciso crescendo e un finale culminante) come forse non si vedeva dal secondo episodio, non si può dire lo stesso sulla qualità dei dialoghi e sul livello di umorismo. Probabilmente per il timore di giocare eccessivamente su una comicità troppo sottile e satirica, gli autori tentano - con scarsa convinzione - di ripararsi dietro ai meccanismi brillanti già collaudati in passato (e la riproposizione di vecchie isole e personaggi è un evidente segnale d'allarme): il risultato è più barcollante del previsto, specialmente in confronto ai testi fulminanti e alle gag senza tregua dell'incredibile “The Curse of Monkey Island”. La sgradevole sensazione che si palesa (per fortuna non troppo spesso) è che si tenti a tutti i costi di far ridere non possedendo la necessaria ispirazione e i personaggi 'giusti': ciò non era mai accaduto in un gioco della serie. Le battute riuscite e i momenti divertenti non mancano, sia chiaro (siamo comunque sopra la media), ma si tratta sicuramente del titolo meno umoristico della saga: la satira di “Fuga” è pompata al massimo, ma è di certo meno diretta della comicità di “Curse”.
Lascia l'amaro in bocca anche qualche scenetta mal sviluppata, come quella della chiesa ortodossa di LeChuck, o la trovata dell'estrema supermegarma distruttiva, l'Insulto Supremo, un espediente classico un po' troppo abusato.
Situazione inedita anche per quanto riguarda l'utilizzo dei comprimari: un buon numero di essi (i turisti e i baristi, ad esempio) sono dotati di una caratterizzazione decisamente monodimensionale, e la loro esistenza sembra giustificata quasi esclusivamente in funzione di un dato enigma.
Fra le new entry, mancano personaggi davvero 'trascinanti' che reggano da soli la scena, e la maggior parte di essi appaiono - nel migliore dei casi - anonimi o semplicemente poco approfonditi: comunque, la maestrina del centro di rieducazione è molto divertente, così come la polena della nave, ma si tratta di figure troppo fugaci per restare veramente impresse; simpatico anche il tono filosofico-fatalista di Jojo Junior. Pietro Nasodilegno, protagonista di una lunga sezione, è invece ben lontano dall'essere memorabile.
L'eccezione è Ozzie Mandrill: un buon villain, perfetto complemento all'immortale e invincibile LeChuck (è piuttosto in là con gli anni e gira perennemente con un bastone), che affronta l'eroe con viscida astuzia piuttosto che con i muscoli.
Ozzie e LeChuck tramavano da tempo nell'ombra per soggiogare i Caraibi. Ovviamente, il nostro non aveva capito nulla fino a questo momento.
Se la cavano meglio i personaggi 'recuperati' dai precedenti episodi: riguadagna punti la nemesi LeChuck che, nuovamente malvagio e non più la spalla comica gigiona vista in “Curse”, appare in una nuova incarnazione che è l'insieme schizofrenico delle tre precedenti (ripercorrendo il nonsense sulla sua immortalità, cominciato con l'avventura precedente); discorso analogo per la cara vecchia Elaine Marley, che torna ad essere grintosa in un ruolo più centrale del solito (per fortuna sono state abbandonate le sue tendenze manesche e bisbetiche del terzo gioco): il modo condiscendente in cui tratta Guybrush, quasi come una madre con il figlio, è molto azzeccato e strappa diversi sorrisi.
Stan (ora un agente immobiliare) e Murray (feroce buttafuori del Planet Threepwood) sono purtroppo ridotti a meri camei, ma divertono. Torna anche Doppio Gancio/Meathook in una breve parentesi 'artistica'. Applausi infine per Otis, terrorizzato al solo sentir parlare di Monkey Island (ricordate dove lo avevamo lasciato nella prima avventura?) e pollice verso per Carla (modificata in una ubriacona depressa, ben lontana dal combattivo Maestro della Spada conosciuto precedentemente).
Monkey Island! La visuale dall'alto è ormai una tradizione. Riusciremo a visitare il vulcano anche questa volta?
Fa molto discutere, infine, la scelta degli autori (soprattutto durante la terza parte) di ricorrere alla ret-con per le grandi rivelazioni (si scopre finalmente il vero segreto di Monkey Island!), che però manifesta notevolmente una scarsa cura generale per la coerenza narrativa della saga, mostrando inoltre altri problemi secondari: anche se la costruzione funziona egregiamente nell'esame del titolo singolo, il risultato è una bastonata fatale alla continuity della serie (mi riferisco soprattutto al colpo di scena su Herman Toothrot), che getta alle ortiche l'ottimo lavoro - effettuato da Ackley e Ahern in “Curse” - di far combaciare tutti i pezzi (sparsi sadicamente da Gilbert). Per quanto alcuni volenterosi fan abbiano provato a 'rattoppare' i buchi (il sottoscritto è uno di loro, ehm), la verità è che Stemmle e Clark si sono lasciati prendere troppo la mano e/o hanno un bel po' peccato di distrazione, perdendo forse irrimediabilmente la coerenza interna (per quanto folle) che contraddistingueva "Monkey Island", e provocando svariate incongruenze a volte gravi, ed altre solo molto fastidiose. Il problema fa il paio con la già citata rielaborazione alternativa delle isole di Melèe e di Monkey, svelando quindi una mancanza di attenzione/rispetto generale per i dettagli.
“Fuga da Monkey Island” è un titolo molto arduo da giudicare. Il presunto tradimento nei confronti dei classici toni della saga è in realtà frutto di una scelta che dona una forte personalità all'avventura, ma che non riesce ad andare fino in fondo a causa di una serie di difetti oggettivi che danneggiano la fruizione generale. Sicuramente non perfetto, “Fuga” avrebbe meritato rifiniture migliori, una maggior cura all'aspetto audiovisivo, e - forse - un budget più sostanzioso. Lodevole negli intenti ma non sempre convincente nell'esecuzione, l'ultimo capitolo della saga si avvicina - paradossalmente - all'approccio 'gilbertiano' più del precedente “Curse”.
Insomma: una lapidata forse eccessiva per un titolo più raffinato, artistico e interessante di quanto comunemente si creda. Non vince il confronto con i due episodi originali, ma - a mio avviso - se la gioca con il terzo, battendolo di misura grazie ad un sottotesto tutt'altro che banale anche se non immediatissimo. Voto: 4 su 5.
La citazione:
Guybrush: "Che ne direste di unirvi alla mia ciurma di pirati, in ricordo dei vecchi tempi?"
Carla: "Guybrush, dai un'occhiata ad Otis"
Otis: (si muove convulsamente, come in preda ad un attacco isterico) "SCIMMIE! SCIMMIE! E' PIENO DI SCIMMIEE!!!"
Carla: “Ecco cosa gli è successo l'ULTIMA volta che ha fatto parte della tua ciurma. Ora, per la forfora di Barbanera, cosa mai potrebbe convincerci ad unirci a te in un'ALTRA avventura demenziale?”
Guybrush: “Beh, cosa ne dici di… (il tono della voce diventa stereotipato, caldo e carismatico) la mia eterna e incondizionata gratitudine, baby”
Carla: “Questo cos'era? Ci stai provando con me?”
Otis: “Ah, che schifo!”
Guybrush: “Ehy! Sono sposato!”
Carla: “E allora smettila di usare quel tono da tacchinatore. Mi vengono i brividi”
 
Nota: “Fuga da Monkey Island” dovrebbe girare sui sistemi più moderni. In caso di problemi, gli autori di Quick & Easy hanno rilasciato un nuovo launcher che permette anche la modifica della risoluzione standard di 640x480. Lo potete trovare a questo indirizzo.
La colonna sonora del gioco ha ispirato - in parte - un pezzo di una band metal finlandese, i Finntroll. Tracce del tema dello Scumm Bar e dello storico "LeChuck's Theme" sono infatti riscontrabili nel brano "En mäktig här" del 2007 (consiglio di provvedere all'ascolto con un paio di cuffie, se non volete noie dai vicini).
“Fuga” è stato anche convertito su per PS2, ma ha riscosso un successo al di sotto delle aspettative. Molto carino però il trailer, che potete visionare qui.
Grazie a Lucasdelirium per la locandina del gioco, che purtroppo appare la meno convincente della serie (Purcell, dove sei?). L'articolo che avete appena letto deve molto alle numerose e intensissime discussioni con l'impagabile autore del suddetto sito. :)
by Gnupick
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Recensione Fuga da Monkey Island. Gnupick's corner, l'angolo delle avventure grafiche. Recensioni, commenti, schede, analisi, retrogaming, discussioni su graphic adventures ed altri videogiochi non solo punta e clicca. Recensioni di giochi per PC con visuale in prima persona o in terza persona.