Blackwell Legacy, The
Joey è lo spettro della famiglia Blackwell da tre generazioni: suo malgrado, è costretto ad accompagnare l’erede di turno lungo l’intera esistenza, come una sorta di perpetuo spirito guida. Riservata e solitaria, Rosangela – l’ultima dei Blackwell – si vede quindi obbligata non solo ad accettare il suo dono/maledizione, ma ad affrontare quella che diventerà la sua missione di vita: risolvere i travagli delle anime in pena rimaste bloccate nel mondo terreno e ‘traghettarle’ nell’aldilà.
“The Blackwell Legacy” (2006, Wadjet Eye) è il primo titolo commerciale dell’autore newyorkese Dave Gilbert (se si esclude il mezzo passo effettuato con la versione deluxe di “The Shivah”) e rappresenta, in effetti, il remake esteso di un altro prodotto realizzato tre anni prima dal medesimo artefice, rivolto però al mercato freeware (“Bestowers of Eternity”).
Il programmatore e scrittore americano può in qualche misura essere considerato come uno degli iniziatori di quel movimento indie/rètro che avrebbe spopolato negli anni a seguire, dimostrando che un breve adventure realizzato con un budget minimo e una grafica pixellosa può in effetti riscuotere un certo successo di vendite. Che la strizzata d’occhio al passato valga solo come un’ammiccata al pubblico o come una reale esigenza economica (la qualità di alcuni ambienti lascia un po’ a desiderare), “The Blackwell Legacy” si distingue per una serie di caratteristiche forse non innovative ma certamente ben innestate all’interno dell’economia del gioco.
Innanzitutto, l’interfaccia appare estremamente semplificata. Il puntatore intelligente scaccia i fantasmi (!) del passato e permette un’interazione rapida con l’ambiente, mentre l’inventario è contraddistinto dall’impossibilità di combinare gli oggetti fra loro: ciò può apparire come una limitazione, ma in realtà il contesto verosimile del plot renderebbe questo genere di operazioni poco credibili, e in ogni caso – data la natura dell’indagine stessa – non se ne sente davvero la mancanza. In compenso, la protagonista dispone di un bloc notes su cui appuntare gli ‘indizi’ e il giocatore può provare ad associarli fra loro per realizzare una nuova ‘idea’ (concretamente, il tutto funziona come la classica combinazione di oggetti): l’interessante feature, ispirata a una caratteristica di “Discworld Noir”, era già stata implementata da Gilbert – seppur in maniera più rozza – in “The Shivah” e in “Bestowers of Eternity”.
Risulta quindi chiaro, alla luce di quanto detto, che l’obiettivo fosse quello di realizzare un’avventura basata sulla storia, facilitando tutti quegli aspetti ludici che possono in qualche modo rallentare il ritmo: il game design, infatti, procede di pari passo con l’intreccio, rifiutando ogni divagazione forzata e assecondando il flusso della sceneggiatura.
Nonostante parta da un concept non certo originalissimo, la scrittura si assesta su livelli superiori alla media e in particolare risultano davvero curate le personalità dei due protagonisti: Rosa è rappresentata in modo realistico tanto nei tratti fisici (respingendo gli stereotipi di bellezza che si riscontrano tipicamente nei videogiochi) che nella personalità, lontana dall’essere classicamente ‘eroica’; Joey, d’altro canto, è un sarcastico spiritello molto pratico e concreto, perfetto contraltare ai – comprensibili – dubbi di Rosa riguardo al suo ‘dono’.
Laddove il passato di Joey è solo accennato, con diversi margini di approfondimento sul personaggio, va invece segnalato l’ampio background della famiglia Blackwell che di fatto copre circa metà della sceneggiatura. Purtroppo però non ne esce altrettanto bene il ‘caso’ vero e proprio (un suicidio apparentemente inspiegabile di una giovane universitaria), liquidato troppo velocemente senza suscitare particolare interesse.
Sebbene la vicenda principale si concluda del tutto, inoltre, si lascia comunque intendere che il background narrativo possa invece venire ulteriormente sviluppato in seguito come collante alle avventure successive, il che svela un approccio parzialmente ‘procedurale’ alla serie.
La solida linearità narrativa, in questo caso inevitabile, viene intelligentemente dribblata attraverso un vecchio – ma sempre efficace – espediente che consiste in una serie di scelte di dialogo che modificano in realtà solo un paio di battute, lasciando di fatto inalterata la conversazione.
Il doppiaggio, invece, può contare su una buona recitazione degli attori, in parte sporcata da qualche piccola imprecisione tecnica. Il commento musicale non riesce invece a essere sempre altrettanto efficace, non solo per la qualità dei brani (altalenante) ma soprattutto a causa di un volume eccessivamente alto (è assente la possibilità di regolare singolarmente le varie tracce audio) che alla lunga rischia di infastidire.
Ben scritta e intelligentemente gestita sotto il profilo ludico, “The Blackwell Legacy” è un’avventura ‘d’autore’ non priva di difetti ma genuinamente sentita: l’aspetto rètro non deve ingannare, l’opera in realtà possiede una sua precisa personalità.
La citazione:
(Joey compare per la prima volta di fronte a Rosa)
Joey: Salve, occhi splendenti.
(Rosa sviene)
Joey: …
Joey: Ma perché fanno tutte così?
Nota: A cinque anni dall’uscita, il gioco è stato ridistribuito, includendo piccoli e marginali ritocchi e un nuovo commento dell’autore, attivabile attraverso il menu.
Dicembre 4, 2012 martedì at 2:01 am
L’ho appena cominciato, nonostante l’ostacolo della lingua di Albione, visto che il nostro comune amico teo è fan. Ti saprò dire se concordo con la tua analisi Gnuppolo!